12 febbraio 2018

La resa dei conti, di Gianni Oliva

In occasione della giornata della memoria per le vittime delle foibe sono nate delle polemiche, volte a mettere in contrapposizione il ricordo dei martiri delle foibe con i morti per le rappresaglie  nazifasciste o per le morti tra i partigiani. Come se la storia fosse una coperta corta e non si potesse ricordare le une e le altre.

Tutte le morti vanno ricordate evitando pericolose strumentalizzazioni: gli infoibati, per esempio, non sono le vittime dei partigiani, ma per saperlo occorre che delle foibe si parli. Così come delle morti vittime della furia nazista.

Mi sono allora riletto il libro “La resa dei conti” – di Gianni Oliva Mondadori ed. (è uscito nel 1999 ed è dunque di difficile reperibilità, ho comunque messo un link per Amazon), per rinfrescarmi la memoria. 

Nella seconda guerra mondiale si contrappongono due progetti: quello nazista che voleva ridisegnare l'Europa secondo una gerarchia di razze e stabilire quali popoli avevano diritto alla cittadinanza del mondo e quali no. L'altro era quello degli alleati, che perseguivano obbiettivi sociali e politici diversi ma trovarono nella lotta al nazismo un denominatore comune. Al di là di qualsiasi considerazione sui percorsi individuali dei combattenti, non si può dimenticare che le formazioni partigiane e le forze regolari del Regno del sud stavano dalla parte degli alleati, mentre il fascismo di Salò stava dalla parte di Hitler. Questo resta il dato storico di fondo, la “memoria” che è compito della ricerca approfondire, fissare e tramandare. Cosa succede nel periodo 1944-1945: accade la “resa dei conti”, contro i fascisti e con il fascismo; con i seviziatori, i collaborazionisti, le spie; resa dei conti contro le rappresaglie e le violenze; più in generale, resa dei conti contro un passato da cancellare. Il prezzo sono circa 20000 morti conteggiando insieme le vittime della giustizia insurrezionale e le vittime della repressione titoista.
Il volume di Gianni Oliva individua tre fenomeni, diversi tra loro per natura e diffusione geografica: 


  • il furore popolare di piazzale Loreto, riprodotto in tante piazze e piccoli borghi 
  • la giustizia dei giorni insurrezionali, con le esecuzioni sommarie e le sentenze dei tribunali popolari
  • le foibe della regione giuliana, con l'eliminazione di coloro che si oppongono al comunismo e alla politica annessionistica della Jugoslavia di Tito


Il primo fenomeno è il più noto: i cadaveri di Mussolini, della Petacci e dei gerarchi fucilati a Dongo, esposti a piazzale Loreto, nello stesso luogo dove un anno prima sono stati uccisi per rappresaglia 15 antifascisti. Davanti a quello spettacolo, il furore della folla milanese esprime nella forma più ruvida tutte le esasperazioni ereditate dall'esperienza precedente: ci sono le sofferenze per i lutti, per le distruzioni per la fame; c'è la consuetudine della violenza introdotta dalla guerra civile; c'è la rabbia per i prezzi pagati, il dolore di chi ha perso il figlio al fronte, la disperazione di chi è rimasto solo. L'onnipotenza sconfitta è uno spettacolo riparatore che giunge ad invertire le posizioni precedenti, ribaltando il contrasto tra la sofferenza tra chi ubbidiva e la privilegiata sicurezza di chi comandava. E, ancora, è uno spettacolo liberatore: calpestando l'idolo si calpesta l'idolatria e ci si assolve dall'essere stati idolatri.
Il secondo fenomeno, la giustizia insurezionale porta, nei giorni della liberazione a far passare per le armi un numero significativo di persone: si tratta di militi fascisti, di individui accusati di essere collaboratori o spie degli occupanti, di esponenti del regime di Salò; in alcuni casi si tratta di capisquadra o di dirigenti di fabbrica eliminati in una logica di guerra di classe; in altri casi, sporadici, di persone di persone eliminate per motivi personali. Da una guerra civile non si esce con una semplice resa degli sconfitti: ci sono le violenze del 1921-22, i civili uccisi per rappresaglia o deportati nei lager. Ci sono i conti del passato: le manganellate e l'olio di ricino degli squadristi, la retorica arrogante del regime che ha portato alla guerra, i morti al fronte o internati in Germania, le distruzioni per i bombardamenti. Dietro queste motivazioni ci sono anche variabili di tipo politico: la volontà di rinnovamento del movimento resistenziale del Nord devono misurarsi con gli equilibri generali nei quali intervengono le autorità militari angloamericane, il governo di Roma, le formazioni politiche moderate. Sul problema dell'epurazione , nell'Italia liberata c'è stato un confronto più serrato, conclusosi con la crisi del primo governo Bonomi e la formazione di un nuovo ministero dal quale sono escluse le forze socialiste e azioniste. Tutto ciò ingenera negli ambienti resistenziali, e in particolare nelle forze comuniste, la convinzione che occorra far presto: ciò che sarà possibile realizzare, in termini di contropotere e di epurazione, è legato alla rapidità con cui il movimento partigiano saprà sfruttare il crollo tedesco, insorgendo e occupando le città prima dell'arrivo delle divisioni alleate. Gli stessi comandi alleati ritengono che un'ondata epurativa, tumultuosa ma rapida, sia lo sfogo necessario per appagare le aspettative di giustizia dei combattenti ed evitare le attese di un'attesa frustrata. La documentazione conservata negli archivi britannici permettono una quantificazione precisa del numero dei morti: circa 10000, tra Veneto, Lombardia, Emilia, Liguria e Piemonte, la maggior parte eliminati nei giorni insurrezionali.


Il terzo fenomeno è quello delle “foibe”, nella regione giuliana. Sono fenditure, profonde anche decine di metri, che si aprono sul fondo di una depressione del terreno, e che l'erosione millenaria delle acque ha scavato nella spugna della roccia in forme gigantesche e tortuose. Qui al termine della guerra, sono stati gettati i cadaveri di migliaia di persone eliminate per motivi politici. Le spiegazioni del fenomeno portano ad una duplice realtà: da un lato la politica di forzata italianizzazione perseguita dal fascismo nell'Istria durante il ventennio; dall'altro la politica espansionistica di Tito e l'ambizione di annettere alla nuova Jugoslavia comunista non solo l'Istria, ma anche Trieste e il goriziano. Nella primavera del 1945, quando le truppe titoiste occupano Trieste prima degli americani, si scatena una repressione nella quale si mescolano risentimenti nazionali e volontà epurativa politica. Ufficialmente, ad essere incriminati sono criminali di guerra ed esponenti fascisti: di fatto la repressione colpisce tutti gli esponenti anticomunisti, indipendentemente dalle loro corresponsabilità col regime.
Perché al tavolo delle trattative venga riconosciuta la sovranità di Belgrado sul territorio giuliano, occorre che nessuna forma di opposizione contrasti l'annessione. Per fare questo è necessario eliminare le persone che possono guidare un movimento anti-annessionistico, impedire che si affermino autorità italiane antifasciste capaci di legittimarsi come tali davanti agli occhi degli alleati. L'epurazione politica si intreccia con i contrasti all'interno del movimento resistenziale italiano, di cui pochi mesi prima è stata espressione drammatica la strage di Porzus, con le ambiguità di Togliatti e del gruppo dirigente del PCI rispetto alla definizione del confine, con la memoria delle stragi compiute in Istria nel settembre-ottobre del 43 dopo l'armistizio.

Il risultato è un clima di violenza, di sospetto e di accuse. La quantificazione delle vittime ha dato luogo a polemiche: la cifra più sicura, anche in sede politica, indica le vittime in 10-12000, numero che secondo i ricercatori dell'Istituto friulano per il movimento di liberazione si raggiunge solo conteggiando tra gli “infoibati” anche i morti e i dispersi in combattimento in tutto il periodo 1943-45: la stima più credibile si attesterebbe pertanto sull'ordine di 4-5000 vittime.


I link per ordinare il libro su Amazon
Il blog dell'autore Gianni Oliva.

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