12 ottobre 2017

Corruzione e ricatti

Andrea Franzoso era un funzionario di Ferrovie Nord Milano, dentro l'Audit: denunciò le spesse illegali del presidente Achille prima seguendo la via gerachica e poi presentanto un esposto alla procura di Milano.
Ora Franzoso non lavora più per FNM, alla presidenza della holding c'è un'altro manager di nomina politica. Mentre l'ex presidente Achille "rischia" una pena di poco superiore a due anni, per spese pazze contestate che sommano a 500mila euro. 

Questo è quello che succede in Italia a chi fa il proprio dovere, a chi non fa finta di non vedere (come avrebbe potuto fare Franzoso, come aveva fatto il predecessore all'audit), a chi piega la testa.
Non deve sorprendere il dato che oggi viene riportato (senza troppa enfasi) sulla diffusione della corruzione:
La corruzione tocca 1,7 milioni di famiglie. Il picco nel LazioLa richiesta di denaro e favori è più frequente sul posto di lavoro, poi quando si ha a che fare con la giustizia e nel caso di necessità di accedere a prestazioni assistenziali. A 2,1 milioni di famiglie è stato chiesto di fare una visita medica a pagamento prima di accedere al pubblico. Solo il 2,2% denuncia.
Perché denunciare, se quando denunci rischi di perdere il posto, di avere la vita rovinata?
Perché denunciare quando poi lo stato non è credibile (coi condoni, con le leggi ammazza processi, coi processi contro i magistrati dalla schiena dritta)?
Il risultato è che mentre si discute sull'approvazione di una legge elettorale che da stabilità all'esecutivo, i fondamenti del paese diventano ogni giorno meno stabili.
Si vive chinando la testa di fronte alle malefatte di chi sta sopra di noi e di fronte ai ricatti.
Come i ricatti dentro il mondo del lavoro? Vuoi mantenere il posto (ovvero vuoi continuare a vivere in modo semi dignitoso, visto che là fuori di posti di lavoro non ce ne sono)? Allora devi accettare il ricatto, ovvero firmare un accordo peggiorativo: è successo anni fa a Pomigliano per la Fiat FCA (che poi non mantenne gli impegni sui miliardi da investire in Italia), è successo in Alitalia e sta succedendo ora in Almaviva.

Lo racconta oggi Marta Fana (chi se no?) sul FQ:
Da sempre i colossi dei call center vivono di commesse pubbliche, ampi profitti e basso costo del lavoro. Oggi però cercano anche di imporre un modello di relazioni sindacali che ricorda quello del padrone delle ferriere: se il meccanismo non piace, scattano licenziamenti collettivi e trasferimenti coatti. Come nel caso dei lavoratori Almaviva di Milano, che fino al 30 settembre si occupavano della gestione dei call center di Eni. Scaduto il contratto, il colosso petrolifero controllato dallo Stato ha deciso di non rinnovare l’accordo dichiarando di voler “internalizzare il servizio”. Se desse l’appalto ad aziende che delocalizzano violerebbe il codice di autoregolamentazione fatto sottoscrivere dal ministero dello Sviluppo, ma nessuno lo sa perché non ha dato alcun dettaglio ai sindacati, che hanno chiesto invano informazioni al ministero.
Almaviva ha colto l’occasione per proporre a tutti i 440 dipendenti della sede di Milano – non solo ai 110 della commessa Eni – un accordo che prevede il controllo individuale a distanza, la cassa integrazione a zero ore, gli straordinari non pagati e il pieno dominio su organizzazione del lavoro e turni, da stabilire mensilmente a livello individuale. Un peggioramento delle clausole previste del contratto nazionale, ma legale grazie al decreto Sacconi del 2011.
Queste condizioni “non negoziabili” sono state accettate solo dal sindacato più rappresentativo, la Cisl, ma l’accordo è stato bocciato a larga maggioranza dal referendum dei lavoratori: 322 no, 107 sì e una scheda nulla. Hanno respinto l’accordo nonostante sapessero di rischiare il posto di lavoro. Come in Alitalia e in altre vicende, i dipendenti sconfessano i sindacati confederali e rivendicano la dignità nei luoghi di lavoro e il rifiuto della politica dei ricatti. I lavoratori sapevano che senza accordo avrebbero ricevuto la lettera di trasferimento a Rende, in Calabria. Cosa che infatti è accaduta ieri. Una dinamica già sperimentata in Almaviva che un anno fa licenziò a Roma 1666 lavoratori, rei di aver rigettato con il referendum l’ennesima riduzione di tutele e salari.
La legge concede mano libera ad Almaviva e la sua posizione di forza sul mercato gli permette di continuare ad aggiudicarsi commesse pubbliche. All’indomani dei licenziamenti collettivi di Roma, l’azienda si è aggiudicata, in raggruppamento temporaneo d’impresa, un appalto Consip del valore complessivo di 850 milioni di euro.
Il settore pubblico esternalizza servizi a chi non fa che competere al ribasso sui diritti dei lavoratori, utilizzando quando conviene trasferimenti coatti e licenziamenti quando invece lo Stato dovrebbe essere in prima fila a garantire il rispetto dei diritti tutelati dalla Costituzione.

PS: ai macchinisti di Ferrovie dello Stato che conducono i treni merci è stato proposto un premio se saltano la pausa pranzo per evitare ritardi.
Come Mimì, il protagonista del film "La classe operaia va in Paradiso", stiamo tornando al cottimo.

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