09 marzo 2017

La stessa musica

Forse hanno ragione quelli che, cinicamente, raccontano che questo è un paese che non può cambiare.
Che rimarrà sempre uguale a sé stesso, specie nei suoi difetti.
Dove si suona la stessa musica.

C'è un'inchiesta che riguarda un ministro, i vertici dell'Arma, la stazione appaltante pubblica più grande, i suoi dirigenti e un imprenditore che, tra le altre cose, ha finanziato la fondazione del presidente del Consiglio (all'epoca). E l'avvocato della fondazione ha fatto pure consulenza con la Consip.
Parte un'inchiesta, si scopre che, grazie ad una fuga di notizie, gli indagati sono stati avvisati.
Il babbo del presidente del Consiglio, i vertici della Consip, gli imprenditori a caccia di appalti. Tutto presunto, eccetto le cimici e la soffiata, che è vera.

La notizia rimane sotto traccia per settimane, finché, a seguito dell'arresto di quest'imprenditore, trova spazio nei TG e sulle prime pagine di tutti i giornali.
E, finalmente, emerge in tutto il suo splendore, il lato oscuro del giglio magico (come ha raccontato l'Espresso): conflitti di interesse, rapporti opachi tra politici e imprese, clientelismi e consorterie.

Cosa succede allora? Un ritorno al passato.
Quando c'erano Silvio, i suio avvocati deputati, i suoi giornali come scudi umani.
Giustizia ad orologeria.
Giustizialismo.
Repubblica del sospetto.
La presunzione di innocenza.
Sono sereno, lasciamo lavorare i giudici, aspettiamo le sentenze. E, senza che nessuno noti la contraddizione, vogliamo il processo subito e pena doppia nel malaugurato caso ..

Deja vu.
Ieri sera ad Otto e mezzo Cerasa, giornalista del Foglio parafrasava l'articolo 1 della Costituzione:
"L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle Procure".
Queste procure che esercitano l'azione penale, senza discriminare tra baroni, conti e plebei (come ai tempi del Marchese del Grillo).

Ma che questo paese non sia destinato a cambiare, finché non cambieremo politica, lo si capisce anche da altre notizie.
Vi ricordate i bonus, gli 80 euro, la più grande opera di ridistribuzione del governo Renzi? Ora queste mance le pagheremo noi, anzi, le pagheranno le fasce più deboli del paese.
Per i tagli ai fondi per i disabili, per esempio:
Carlo di Foggia sul Fatto Quotidiano:

Con una mano dare, con l’altra togliere, e quando scoppia il casino fare finta di indignarsi. Sono giorni in cui il governo dà il meglio di sé su una delle tante eredità lasciate da Matteo Renzi: l’enorme mole di tagli imposti alle Regioni per finanziare le diverse misure varate nei tre anni di governo del fiorentino, che ora presentano il conto. Questa storia è incredibile per l’irresponsabilità mostrata dai suoi protagonisti.
Nei giorni scorsi si è scoperto che per effetto di un’intesa nella Conferenza Stato-Regioni è stato deciso un maxi-taglio ai fondi sociali che vengono trasferiti dal primo alle seconde. Tra questi: 50 milioni al fondo per la non autosufficienza (disabili, malati gravi e familiari che li assistono), che torna ai 450 stanziati a ottobre e 211 milioni a quello per le politiche speciali, che passa così da 311 a 99 milioni (-67%). Soldi che servono a finanziare, fra le altre cose, asili nido, misure di sostegno alle famiglie più povere, assistenza domiciliare e centri anti-violenza. Diverse associazioni si sono infuriate. Appresa la notizia – fornitagli da un’interrogazione della deputata Pd Donata Lenzi – il sottosegretario alle Politiche sociali Luigi Bobba (Pd) è cascato dal pero: “Il fatto è di una gravità inaudita. Il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali non ha partecipato al confronto e questa assenza costituisce un’aggravante perché conferma come le scelte per la salute siano totalmente subordinate a fattori economici”. I fattori economici sono i tagli imposti dal governo di cui Bobba ha fatto parte, e distribuiti in accordo con quello in cui siede attualmente.
 
Nei suoi tre anni l’esecutivo Renzi ha imposto tagli sanguinosi alle Regioni per finanziare le diverse manovre e contenere il deficit. Un esempio su tutti: la misura più sbandierata, il “bonus Irpef”, i famosi 80 euro in busta paga è arrivata ad aprile 2014 con un decreto che per coprire i costi (10 miliardi l’anno) ha imposto un taglio alle Regioni di circa 12 miliardi nel 2014-2020. Parliamo della “più grande opera di redistribuzione salariale mai fatta in Italia” (Renzi). Funziona così: il governo vara la misura, la copre in parte con i tagli a Comuni e Regioni e, per queste ultime, gli lascia la scelta formale di dove tagliare.
Il 9 febbraio la Conferenza Stato-Regioni si è trovata così a dover ripartire i tagli del 2017 non ancora coperti: 2,7 miliardi. La proposta la fa il governo e poi parte la trattativa con le Regioni: se salta tutto, vengono tagliati tutti insieme. Il 23 febbraio si arriva all’accordo. Il Documento finale – firmato dal ministro agli Affari regionali Enrico Costa – elenca la provenienza dei tagli: ben 2,2 miliardi vengono proprio dal decreto sul Bonus Irpef del 2014. La stangata è pesante: 1,7 miliardi vengono sottratti al fondo enti territoriali dove le Regioni hanno versato i risparmi di spesa; altri 100 ai contributi per gli investimenti. Poi c’è la scure sul sociale: -485 milioni. Il fondo per l’erogazione gratuita dei libri scolastici alle famiglie bisognose perde 70 milioni (su 103), quello inquilini morosi incolpevoli altri 50, stessa cifra per i contributi all’edilizia scolastica mentre quella sanitaria perde 100 milioni (-50%). “Che esponenti del governo si meraviglino è allucinante – spiega Massimo Garavaglia, assessore in Lombardia e coordinatore per gli affari finanziari della Conferenza delle Regioni – Il documento è frutto di un lavoro fatto prima con il sottosegretario a Palazzo Chigi, Claudio De Vincenti poi con il suo successore, Maria Elena Boschi e infine siglato con il ministro Costa: la proposta è del governo, noi abbiamo solo limitato i danni”. 

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