20 settembre 2015

Presa diretta – la riforma del lavoro

Un milione di posti di lavoro … era la promessa con la quale il cavaliere della (presunta) rivoluzione liberale aveva sedotto milioni di italiani.
Il milione di posti non l'abbiamo visto in compenso la riforma del lavoro chiamata Biagi (anche se fu approvata dopo la morte del giuslavorista) creò una generazione di precari. Giovani che entravano nel mondo del lavoro dalla porta posteriore e condannati a rimanere nei gironi infernali del lavoro a sei mesi, ad 1 anno, senza tutele, con pochi diritti ..
Ci dicono però che non bisogna essere schizzinosi, che così è il mondo, che dobbiamo fare concorrenza ai polacchi, ai cinesi.
Anzi, per essere ancora più competitivi, i nostri governanti e gli esperti del lavoro altrui hanno deciso che bisognava togliere tutti i paletti che governavano la licenziabilità.
Il famoso articolo 18.
Arriveranno investitori a frotte. Erano i tempi di Monti e Fornero.

Poi è arrivata la stagione della rottamazione, dopo una breve pausa del governo Letta e Alfano.
La promessa al popolo è sempre la stessa, si vede che l'allievo aveva imparato bene le tecniche del maestro.
Un milione di posti di lavoro (per bocca del  ministro del lavoro Poletti, quello della figuraccia estiva), arriverà la crescita, abbiate fede (e in effetti la politica è ormai diventata questione di dogmi, di fede).
Il jobs act è una delle riforme, fiore all'occhiello dell'attuale legislatura, che recentemente ha pure avuto il plauso di Moody's (una volte le agenzie di rating erano invise, quando ci declassavano il rating).
Jobs act, ovvero riforma del lavoro: al centro il nuovo contratto a tutele crescenti, per cui non vale più l'articolo 18. Via, sparito. Roba vecchia. Tabù.
Il licenziamento, eccetto che per chiari (?) motivi discriminatori viene ora monetizzato. Tu lavoratori, che sia tuta blu o impiegato di concetto, sei solo il prezzo del rimborso per mandarti via.

Tolti i paletti, e concessi gli incentivi a tre anni per i nuovi contratti (con la legge di stabilità), siamo qui ad aspettare la crescita, l'Italia che riparte, le assunzioni.
Servirebbe un ente esterno che certificasse: l'Istat, per bocca del presidente Alleva, ha criticato l'uso che il governo ha fatto dei numeri sull'occupazione.
Un inseguire decimali, confrontando mese su mese.
Un calcolare i nuovi contratti, confondendoli con nuovi posti di lavoro, dimenticandosi delle cessazioni.
Numeri sparati sulle prime pagine deigiornali, nei TG, lanciando al popolo del telecomando il messaggio chiaro: togliamo di mezzo le tutele, togliamo di mezzo i sindacati, togliamo di mezzo la concertazione (roba vecchia, antica, come mettere il gettone nell'Iphone).
Siamo solo io e te, dipendente.

I numeri indicano un aumento dei nuovi contratti, più dovuto agli sgravi fiscali (che prima o poi finiranno e vedremo) che altro. Ci sono stati anche i furbetti che hanno licenziato per assumere (e qualcuno avrebbe dovuto controllare, visto che sono soldi pubblici).
Ma i numeri dicono anche i per le fasce giovani questa crescita non c'è. Che i contratti a tempo determinato (che dovevano morire) continuano ad esserci. Che l'occupazione che cresce o che si mantiene è quella degli over 50, per la riforma Fornero sulle pensioni.

Ma è come andare contro i mulini a vento … Chi critica le riforme, chi solleva dubbi, chi si permette di cantare fuori dal coro, è gufo, disfattista.
E chi se frega del demansionamento, del controllo a distanza, dell'assenza di controlli sulle discriminazioni, sulla qualità del lavoro che viene offerto. Il Fatto Quotidiano aveva fatto notare come questa riforma ricalchi in buona parte, le proposte fatte nella primavera scorsa da Confindustria.
Che ora, in uno slancio di ottimismo, getta il cuore anche più in là del governo: arriveremo al milionedi posti di lavoro e il PIL crescerà più dell'1 %.
Come a dire, lasciate fare a noi, questo paese è rimasto bloccato per anni proprio dai sindacati. Lo ha detto il presidente di Confindustria Squinzi e lo ha ripetuto anche il ministro Boschi. L'avvocato che la sorte ci ha dato come ministro delle riforme.
Peccato che poi siano state proprio le grandi imprese quelle che, in questi anni, non hanno investito nel paese (siamo quasi i peggiori in Europa), se ne sono andate, delocalizzando la produzione (caso Omsa).

Presa diretta questa sera farà il check in della riforma del lavoro, andando in giro per l'Italia, dal nord al sud, da Mirafiori a Melfi. A che punto siamo con le tutele crescenti?

La scheda della puntata: TUTELE CRESCENTI
A sei mesi dell’entrata in vigore del Jobs Act, PRESADIRETTA dedica la 2’ puntata proprio alla riforma del mercato del lavoro.E’ servita questa riforma a creare nuova occupazione? Stiamo costruendo nuovi e buoni posti di lavoro?A PRESADIRETTA un viaggio dal nord al sud del paese, dalla Fiat di Melfi alle piccole imprese del nord, tra chi ha ripreso a lavorare e chi è fermo al palo, tra storie positive di chi assume e continua a garantire l’articolo 18 e chi invece licenzia e riassume approfittando degli sgravi governativi, i cosiddetti “furbetti del jobs act”.Le telecamere di PRESADIRETTA sono entrate nella giungla del precariato in cui devono destreggiarsi i giovani alle prese con la ricerca del primo impiego. Tra annunci on line e sui giornali, dove c’è chi propone di tutto: dalla “vendita” di un posto di lavoro alla truffa vera e propria. Un far west al quale la riforma del mercato del lavoro non ha ancora posto fine.PRESADIRETTA ha raccolto le analisi e un primo bilancio di numerosi economisti italiani, le interviste di Riccardo Iacona al ministro del Lavoro Giuliano Poletti e al segretario generale della Cgil Susanna Camusso. E infine un bellissimo ragionamento sulla disuguaglianza del Premio Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz.
TUTELE CRESCENTI” è un racconto di Riccardo Iacona con Alessandro Macina, Federico Ruffo, Sabrina Carreras, Lisa Iotti, Marina Del Vecchio, Antonella Bottini.

PS: non c'entra direttamente col tema della puntata, ma non posso non citare quanto è avvenuto venerdì, aseguito dell'assemblea dei dipendenti dei musei romani.
Lo scandalo, la vergogna, la misura che è ora colma. Che ha costretto il governo ha decretare con urgenza: da oggi i dipendenti museali fanno un servizio di pubblica necessità.
Possono rimanere per mesi senza essere pagati degli straordinari, possono pure continuare a lavorare male, con una cattiva dirigenza centrale e con i vuoti di organico.
Ma ora i turisti possono stare tranquilli.
Che importa se Pompei crolla ed è visitabile solo un quarto della città?
Se molte delle opere d'arte dei musei italiani sono nascosti, perché non ci sono spazi per mostrarli e personale a sufficienza?
Che importa se l'Italia spende in cultura (il servizio essenziale, sentite come suona bene?) solo lo 0,19% del PIL. Meno di un quarto di quando si spendeva negli anni '50, scriveva sabato Stella sul corriere.
Abbiamo trovato il colpevole dei mali di Roma e dell'Italia: non i Casamonica, non mafia capitale, non la compravendita dei senatori, non la presidente della commissione antimafia della Campania indagata per voto di scambio.
I colpevoli sono i lavoratori che pretendono rispetto e anche uno stipendio dignitoso e regolare.
Oggi è chiedere troppo.


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