22 maggio 2014

Il senso di Fiandaca per il patto Stato-mafia di Antonio Ingroia

Da Il fatto quotidiano del 22-05-2014: la risposta di Antonio Ingroia alle tesi "negazioniste" del prof. Fiandaca sulla trattativa stato-mafia
Il senso di Fiandaca per il patto Stato-mafia di Antonio Ingroia
È triste veder crescere ogni giorno i segni sempre più evidenti della decadenza etica del nostro Paese, sintomatica del decadimento, intellettuale e politico, di una classe dirigente, ingoiata da una questione morale che è criminale.

Un decadimento che non solo si vede nel crepuscolo di potenti assicurati alle patrie galere come Dell’Utri e Scajola, ma che invade ogni angolo del Paese e caratterizza questa orribile campagna elettorale dove si ignora l'Europa che ne uscirà, e si rincorrono slogan, annunci e insulti. Un decadimento che contagia anche ambienti impensabili se uno studioso come Giovanni Fiandaca, passato con disinvoltura dal movimentismo dei “professori” alle liste del Pd, entra nella bagarre elettorale promettendomi “calci nel sedere” se dovessi ancora criticarlo per l'opera di disinformazione e giustificazione della trattativa Stato-mafia alla quale si è da ultimo con dedizione applicato, così guadagnandosi il plauso di quel mondo politico che finora non lo aveva mai apprezzato.

   E nella settimana della strage di Capaci è il momento di rimettere dritti in fila i fatti che il giustificazionista F. ha rovesciato e imbracciare la matita rossa e blu per sottolineare alcuni dei tanti grossolani errori, di storia e di diritto, che si trovano nel suo libro La mafia non ha vinto. E perciò lo farò per punti, ogni punto un calcio nel sedere, ovviamente figurato e affettuoso, come quelli che lui vorrebbe rifilarmi, forse per guadagnare benemerenze in alto loco. I fatti sono testardi, come me, pronto a confrontarmi in un pubblico dibattito, davanti alle telecamere de Il Fatto Tv o dove lui vorrà.

 Il travisamento dell’imputazione

Il primo rilievo o meglio, come lui ama dire, il primo calcio nel sedere, è logico-giuridico. Fondamentale regola per criticare è conoscere cosa si vuole criticare, ancor più doveroso per uno sudioso. Ma questa regola sembra non valere per lui, che pare neanche conoscere i reati contestati. Dedica infatti buona parte del libro a dimostrare che trattare con la mafia non è reato, senza tenere in alcun conto che nessuno degli accusati è imputato del reato di trattativa. L’imputazione è di minaccia contro un Corpo politico-amministrativo dello Stato, in questo caso il governo, al quale Cosa Nostra fece pervenire, tramite una catena di emissari e intermediari, le sue richieste per non proseguire la strategia omicidiaria, avviata con il delitto Lima nel marzo 1992. Mai prima d’allora la mafia ebbe una potenza militare tale da minacciare lo Stato per estorcergli benefici. E di fronte a un’estorsione, coerentemente, ogni emissario e intermediario fra il minacciante (la mafia) e il minacciato (il governo), che abbia agevolato intenzionalmente e consapevolmente la minaccia, è stato imputato, mafioso o non mafioso che fosse. Niente di trascendentale : l’applicazione del codice e del principio di eguaglianza. Come va punito chi agevola il mafioso nel mettere l’estorto in stato di soggezione, così va fatto con l’intermediario delle minacce verso lo Stato. Cosa c’entra la divisione dei poteri con tutto questo? Nulla. Nessuno è stato incriminato per la scelta politica di avere ceduto alla trattativa: non lo sono né Mancino e neppure Conso, accusati semmai di non avere detto la verità. Invece, pur di demolire il processo, si imbrogliano le carte e il giustificazionista F. si lancia in un’appassionata difesa della scelta di Conso di allentare il 41 bis nel '93, scelta eticamente e politicamente condannabile , ma penalmente mai contestata, visto che Conso è imputato solo di false informazioni al Pm, come Mancino di falsa testimonianza. Avrà un ex ministro almeno il dovere di dire la verità sulle ragioni di certe scelte? Ma su questo il giustificazionista F. preferisce tacere.

La mistificazione dei fatti storici

Il secondo calcio nel sedere. Ovvio che, se si vuole contestare la ragion d’essere di un’inchiesta, è buona regola che non se ne ignori la piattaforma probatoria, dando per assodata la tesi difensiva, secondo cui la trattativa aveva il nobile intento di strappare uno Stato impotente dalle grinfie di una mafia vincente. La procedura logicamente corretta è esattamente inversa. Bisognerebbe semmai confrontarsi sull’assunto dell’accusa, e cioè che il movente della trattativa fu di salvare, non lo Stato, ma una casta, una ristretta cerchia di politici condannati a morte da Cosa Nostra perché ritenuti colpevoli di avere tradito la mafia per non avere mantenuto i patti. Solo il processo potrà dire se l’accusa è provata. Ma se questa è l’accusa, ci vuole davvero impudenza per definire “meritoria e coraggiosa” l'iniziativa degli imputati di avviare la trattativa, come fa il giustificazionista F. Ed è anche un falso storico, visto che invece risulta da questo e altri processi e perfino da sentenze definitive che la trattativa ha salvato la vita di qualche uomo politico, ma certamente ne ha sacrificato molte altre, come quella di Paolo Borsellino, considerato un ostacolo per la trattativa, e quelle delle vittime innocenti delle stragi del '93.

L’ignoranza degli effetti nefasti

Ovvero, il terzo calcio nel sedere (sempre affettuosamente parlando). Ancor più grave l’ottundimento interpretativo dei fatti che arriva a ignorare i benefici che la mafia provenzaniana ha tratto dal patto politico-mafioso siglato nel '94 alla chiusura della trattativa. Qui il giustificazionismo giunge alla sua apoteosi, perché nello sforzo di negare gli effetti nefasti della trattativa politico-criminale si finisce anche per dare dignità alle larghe intese (il che non guasta...) e glorificare la politica antimafia berlusconiana, così ignorandone i guasti di cui ha beneficiato tutto il mondo criminale. Dallo svuotamento del 41 bis, all'inefficienza sempre più spiccata dello strumento penale contro i reati-spia della mafia, all’azzeramento del fenomeno del pentitismo, e così via. E anche su questo il giustificazionista F. preferisce tacere.

Conformismi, pregiudizi e carrierismi

   Come spiegare tutto questo? Inequivoco il senso della scelta del Pd di investire su F. solo quando è diventato il giustificazionista della trattativa. E così si comprende tutto: i toni delle polemiche ingenerose, omologate alle barbarie del linguaggio in voga, le difese d’ufficio fuori luogo, perfino invocando per la trattativa improponibili stati di necessità, sorprendenti svarioni giuridici, come quando si confonde movente della trattativa e dolo richiesto per la configurabilità del reato. Succede quando pregiudizi e conformismi politici prevalgono. Come in uno specchio rovesciato di un Paese alla rovescia. Ai tempi di Sciascia si polemizzava sui professionisti dell'antimafia, oggi abbiamo i professori del giustificazionismo delle trattative con la mafia. Altri tempi. Poveri noi.

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