31 maggio 2014

Vi aspettavo, Marcello Torre

Carissimi, ho intrapreso una battaglia politica assai difficile. Temo per la mia vita. Ho parlato al dottor Ingala. Conoscete i valori della mia precedente esperienza politica. Torno nella lotta soltanto per un nuovo progetto di vita a Pagani. Non ho alcun interesse personale. Sogno una Pagani civile e libera. Ponete a disposizione degli inquirenti tutto il mio studio. Non ho niente da nascondere. Siate sempre degni del mio sacrificio e del mio impegno civile. Rispettatevi e amatevi. Non debbo dirvi altro. Conoscete i miei desideri per il vostro avvenire. Lucia serena, Peppino e Annamaria “laureati”. Corretti, tolleranti e aperti all'esistenza. Con una famiglia sana e tranquilla. Quanti mi hanno esposto al sacrificio siano sempre vicini alla mia famiglia. Vi abbraccio forte al cuore. Un pensiero ai miei fratelli, alle zie e a tutti i miei cari”.Lettera alla famiglia.
Marcello Torre fu ucciso dalla Camorra l'11 dicembre 1988, per non essersi piegato alla logica di collusione nell'affidamento di appalti per la rimozione delle macerie, dopo il terremoto in Irpinia del 1980.
Marcello Torre era un democristano anomalo, sindaco di Pagani lottò nel suo comune contro le infiltrazioni camorristiche. Sa di essere in pericolo, per il suo atteggiamento: per questo scrive alla sua famiglia, prima delle elezioni a sindaco, la lettera testamento che avete letto sopra.





Marcello Torre è uno dei politici eroi, raccontati da Antonella Mascali nel libro “Vi aspettavo”.

Libero Grassi – l'imprenditore che aveva deciso di non pagare il pizzo

"...volevo avvertire il nostro ignoto estorsore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l'acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere... Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al "Geometra Anzalone" e diremo no a tutti quelli come lui"
Libero Grassi, dal Giornale di Sicilia del 10-1-1991
Libero di nome e di fatto, Libero Grassi, diversamente da altri imprenditori palermitani (e dal presidente di Confindustria di Palermo) il pizzo non lo voleva proprio pagare. Perché significava piegarsi all'antistato, la mafia, rendendo meno credibile le istituzioni.


Era il 1991: nonostante le minacce, le telefonate, l'essere stato lasciato solo da istituzioni e associazioni di categoria, Libero Grassi andò avanti, fino al sacrificio finale. Fu ucciso dalla mafia il 29 agosto 1991.
Sul comportamento di una certa magistratura:

La decisione scandalosa del giudice istruttore di Catania, Luigi Russo, che ha stabilito che non è reato pagare la protezione ai boss mafiosi è sconvolgente .. Stabilire che in Sicilia non è reato pagare la mafia è ancora più scandaloso della scarcerazione dei boss.Ormai nessuno è più colpevole di niente. Anzi, la sentenza del giudice Russo suggerisce agli imprenditori un vero e proprio modello di comportamento: pagare i mafiosi. E quelli che come me invece cercano di ribellarsi?”.
Commento di Libero Grassi al proscioglimento dall'accusa di concorso in associazione mafiosa dei cavalieri el lavoro di Catania (Mario Rendo, Carmelo Costanzo, Gaetano Graci e Francesco Finocchiaro).

Sul rapporto mafia-politica:


Chi dovrebbe combattere la mafia? La legge. E chi fa la legge? I politici .. Se i politici avranno ottenuto il consenso onestamente faranno buone leggi, altrimenti le faranno cattive. E chi procura il consenso in Sicilia ai politici? La mafia ..
Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte coi mafiosi”.
Non sono un pazzo, sono un imprenditore e non mi piace pagare. Rinuncerei alla mia dignità. Non divido le mie scelte coi mafiosi”.
Libero Grassi è uno degli eroi di cui parla Antonella Mascali nel libro “Vi aspettavo”.


30 maggio 2014

Il premier di tutti

Dice Renzi «Voglio essere il presidente di tutti».
Non voglio fare bastian contrario, ma se vuole fare le riforme che ha promesso, se vuole cambiare verso al paese, dovrà per forza di cose scontentare qualcuno.
E, dunque, non potrà essere il presidente che soddisferà tutti, democristianamente (per intenderci).
Le lobby, gli evasori, i corrotti, gli imprenditori che prendono i sussidi e poi se ne vanno all'estero.
Dei banchieri che si prendono i bonus e poi licenziano i dipendenti. Che concendono prestiti agli amici, ma negano mutui e aiuti alle aziende sane.
Degli industriali che inquinano i terreni e le falde e poi fanno pagare il conto alla collettività.
Dei capitani coraggiosi che fanno business con gli aiuti di stato, vedi Alitalia, dimenticandosi del rischio di impresa.

Se la sua maggioranza può essere vasta, da Vendola a Fioroni, per allearsi con Alfano, se si vuole cambiare verso al paese, qualcuno deve essere scontentato.

Announo - viva maria?

Vorrei fare i complimenti ai ragazzi della Innocenzi che ieri durante la puntata di Announo sulle droghe leggere, sono riusciti a far fare bella figura all'ex ministro Giovanardi.
Si doveva discutere se, dopo la sentenza della Cassazione (e dopo aver osservato gli effetti della Fini Giovanardi), fosse giusto liberalizzazione l'uso delle droghe leggere.
Liberalizzando si toglierebbe spazio alla criminalità organizzata?
I giovani che fanno uso, per fini personali, delle droghe leggere, la "maria", sarebbero più tutelati?

Putroppo non basta essere giovani, avere cappellini o tatuaggi per dirsi esperti in materia. Per dire cose sensate. Bisogna conoscere bene gli effetti delle droghe (non basta wikipedia), le leggi attuali e le altre leggi nel mondo, il mondo della criminalità organizzata.
A ribattere alle tesi di Giovanardi c'era il rapper Fedez. 
La discussione in studio si è arenata sui soliti luoghi comuni per cui una cannetta non fa niente, che il proibizionismo non risolve niente. Siccome "trasgredire è intrinseco nell'uomo" è inutile fare leggi che proibiscano l'uso delle sostanze (cosa che è falsa, perché l'uso personale non è vietato, mentre lo è guidare mezzi ..).
Se è vero che anche l'alcool fa male, che anche l'amianto uccide, che i rifiuti interrati nella terra dei fuochi fanno venire i tumori alle persone (nell'indifferenza della politica, visto che per il ministro è tutta colpa delle sigarette), questo non comporta che allora dobbiamo togliere divieti sulle droghe.





Diceva Borsellino che è da ingenui pensare che, togliendo lo spaccio alla criminalità, si toglierebbe di mezzo il traffico clandestino. Le borse firmate si vendono nei negozi, ma questo non blocca agli ambulanti di vendere quelle taroccate.
La vera domanda è: ma la legge Fini Giovanardi ha funzionato? Il consumo è aumentato o diminuito? Chi è finito in carcere, per spaccio o perché aveva dosi superiori alle minime, ha vissuto la condanna come deterrente allo spaccio?

Nella copertina della puntata Santoro si è tolto il sassolino contro Grillo e i Grillini rinfaccia dogli l'incontro con Farage, il leader xenofobo e reazionario inglese.
Che grida ai suoi sostenitori "ridateci i nostri confini". Che è come mandare a vaffa anche gli italiani che proprio in Inghilterra vanno a cercare fortuna.
Grillo che va da Vespa e non va da Renzi a vedere le carte, per capire se veramente vuole cambiare le cose.
Ora, col 40% dei consensi e col partito in mano, ci sarebbe l'occasione per farlo sul serio.
Non solo coi tweet.


L'intervento di Travaglio


Se oggi ci fosse il referendum sui sindacati

Se in una giornata come oggi dove si assommano gli scioperi (del personale Trenord) con i disagi abituali sui mezzi pubblici, facessero un referendum per abolire il sindacato, specie nel settore pubblico, questo passarebbe col 99,99% dei consensi.
Oramai il trasporto pubblico è diventato una guerra tra poveri.
Da una parte i pendolari, sempre più incazzati (ma sempre meno ineteressati a far rispettare i loro diritti, paradossalmente) e dall'altra il famoso personale viaggiante.
Quelli contro cui si sfogano i viaggiatori in occasioni come queste.

C'è lo sciopero e lo fanno apposta a fare ritardo .. non sono capaci di fare niente ... dovrebbero licenziarvi tutti ...
Ci si dimentica che gli scioperi nascono dall'ostinazione nel non rinnovare i contratti. Dal fatto che le condizioni lavorative peggiorano. Che gli investimenti in treni latitano. Gli investimenti arrivano solo sulle linee più redditizie (e spesso non per i pendolari).
Che quando hanno approvato i lavori di ammodernamento sulle linee di Trenord, non si sono curati degli impatti sulle linee: ogni giorno il mio treno, per causa dei cantieri sulle linee (per ampliare le banchine, per i sottopassi) accumula ritardi su ritardi.
E, giorno dopo giorno, chi viaggia accumula disagi su disagi.

Vogliono continuare con questi scioperi, le sigle sindacali? E' come se in guerra, si continuasse a bombardare sullo stesso posto senza capire che bisogna cambiare strategia.

29 maggio 2014

Vi aspettavo - Giorgio Ambrosoli

Commissario liquidatore della banca privata di Michele Sindona, Giorgio Ambrosoli avrebbe potuto assecondare le richieste di Sindona, di essere salvato coi soldi pubblici. Avrebbe potuto girarsi dall'altra parte, lasciare che le cose seguissero il corso che il banchiere amico di Andreotti aveva tracciato.
Non gli sarebbe costato niente: eppure Ambrosoli resistette alle pressioni, alle minacce, al senso di solitudine. Questo per un alto senso delle istituzioni.
Eroe borghese, e anche eroe solitario.

Il figlio Umberto, scrisse queste righe sul padre:
E' stato solo il senso del dovere a impedirgli un compromesso, anche con se stesso? È stata la fedeltà, l'obbedienza alle leggi e allo Stato? Io penso di no, credo che mio padre lasci, più di ogni altro esempio, quello di un uomo capace di affermare la propria libertà.
Con se stesso, rimandendo corerente al proprio pensiero, alle proprie convinzioni. Con gli altri, quando ha respinto blandizie e ricatti senza cercare protezioni 'politiche', nella consapevolezza che anche quelle potevano avere un prezzo. È stato un uomo libero nel senso più completo del termine, quello che include la consapevolezza del proprio ruolo. Non istituzionale, di commissario liquidatore, ma di uomo, di marito, di padre, di cittadino”.
Fu ucciso da un sicario su ordine di Sindona, l'11 luglio 1979 a Milano.
Eroe libero, eroe solitario, come gli altri raccontati da Antonella Mascali in “Vi aspettavo”.

Vi aspettavo - Marco Biagi

Un giorno potremmo sapere la verità sulla scorta negata a Marco Biagi, il giuslavorista ucciso dalle Br. Scorta tolta dall'ex ministro Scajola, che non ne sapeva niente delle minacce.
Eppure Biagi sentiva di essere in pericolo: prima di lui le Br avevano ucciso il collaboratore del ministro Bassolino, Massimo D'Antona. E la ventilata riforma del lavoro, dove l'articolo 18 veniva usato come prestesto da una parte e dall'altra, stava accendendo troppo i toni dello scontro.
“La politica ha prevalso e non ci resta che accettare i risultati pur nella certezza di aver fatto tutto il possibile per evitare lo scontro. Cominciano tristi conseguenze per me in quanto alcuni colleghi con vari pretesti stanno prendendo le distanze. Eppure, con riserve sulle decisioni adottate, ho un senso di profonda lealtà nei confronti di Maroni e Sacconi, mi sentirei un vigliacco a stare dalla parte di Cofferati, dove si adagia la maggior parte dei giuslavoristi per conformismo e tranquillità personale.
Ti ho scritto queste cose perché tu sai quanto, nella nostra materia costano certe scelte. Quanto costa stare dalla parte del progresso anche quando non è capiti”.
Mail inviata ai collaboratori del sottosegretario al Lavoro Sacconi, il giorno prima di essere ucciso.
Biagi fu ucciso a Bologna il 19 marzo 2002 dalle nuove Brigate Storie. La sua solitudine è raccontata in “Vi aspettavo” di Antonella Mascali.

Connotazioni politiche

Berlusconi si è sempre definito il leader dei moderati. L'amico di Dell'Utri, Cuffaro, Matacena e altra brava gente..
Ma dopo la batosta alle Europee, si è rivolto all'amico Matteo (Salvini) per un futuro accordo, per evitare lo svuotamento degli elettori.
Salvini, segretario della Lega che, da moderato anche lui, si è subito ritrovato con Marine Le Pen, per una comune strategia anti Europea. Tiriamo su i ponti levatoi, prima i francesi, basta moneta unica e altre amenità varie.
Perfino l'Ukip, altro partito moderato di xenofobi conservatori, ha preso le distanze dal Front National.
Ma se Farage non si allea con Le Pen, ha invece cercato subito di incontrare il nostro Grillo.
Lui, il populista che sostiene di non essere né di destra né di sinistra: farà un alleare il SUO movimento con un partito reazionario e d idestra appoggiato dalla grande finanza e dall'industria?
E chissà cosa diranno ora i grillini, quelli anti kasta, anti sistema. Quelli che non fanno inciuci.

Spariti o limitati i centristi, anche in Europa sbarcherà il pd renziano.
Che dovrà rimpattare il fronte si euro.
Ma che dovrà anche occuparsi dell'Italia: quell'Italia impietosamente radiografata dall'Istat.
Un paese dove è difficile trovare lavoro, specie se si è senza titoli, senza spintarelle, al sud.
Un paese dove è difficile fare figli.
Un paese dove i flussi migratori, alla faccia di quello che dicono i leghisti, sono invertiti:
"Nel 2012, oltre 26 mila italiani di 15-34 anni hanno lasciato il Paese, 10 mila in più rispetto al 2008, meno di quanti ne sono rientrati. Il flusso di uscita dei laureati è di 6 mila 340 unità, con un saldo di -4 mila 180 unità. Le mete di destinazione privilegiate sono Regno Unito, Germania (circa 900 emigrati in ciascun paese) e Svizzera (726)".

Non un paese per viverci: colpa anche delle politiche di austerità, che avranno anche curato la malattia (i conti), ma hanno ammazzato il malato.
Servirebbe un cambio di politica, meno dogmatica sui conti e più attenta alle persone. Anche per fermare l'ondata di polulismo destrorso (i neonazisti ora, sono anche in Europa).
Servirebbe una politica di sinistra, per dire. Ad avercene una.

28 maggio 2014

Walter Tobagi 1980 - 2014

Un giornalista dovrebbe raccontare la realtà, e dare a chi legge i suoi articoli le chiavi per comprendere i fatti che accadono nel paese. Questo è quello che faceva, coi suoi articoli sul terrorismo, Walter Tobagi. E per questo finì nella lista nera: perché i terroristi temevano la sua lucidità e la sua determinazione. Questo disse uno dei suoi carnefici, Marco Barbone al processo.
Walter Tobagi, giornalista di punta del Corriere della Sera, fu ucciso a Milano il 28 maggio 1980. Questo è quello che scrisse, qualche anno prima, alla moglie. Una specie di testamento:
Se un giorno non dovessi più esservi ti prego di spiegargli [ai suoi figli, ndc] di ricordare. Mi sentirei ancora più in colpa se oggi non spendessi quei talenti che mi sono stati affidati. Ricorda ciò che non sono riuscito a spiegare ai miei figli [..] Al lavoro affannoso di questi mesi va data una ragione, che io avverto molto forte: è la ragione di una persona che si sente intellettualmente onesta, libera e indipendente e cerca di capire perché si è arrivati a questo punto di lacerazione sociale, di disprezzo dei valori umani [..] per contribuire a quella ricerca ideologica che mi pare preliminare per qualsiasi mutamento, miglioramento nei comportamenti collettivi”.La lettera alla moglie (1978)
Walter Tobagi è una delle storie raccontate da Antonella Mascali nel libro “Vi aspettavo”.    

Protagonismo dell'antimafia

E' un episodio citato da Antonella Mascali nel suo ultimo libro "Vi aspettavo": l'autrice parla dell'assassinio dell'imprenditore Libero Grassi, lasciato solo nella sua battaglia contro il racket, sia da parte della Confindustria siciliana, sia da parte della politica locale.
Quella che, nel 1991 (dopo Pio La Torre, Dalla Chiesa, Mattarella, Reina ..) ancora negava l'esistenza della mafia. 
Dopo la sua morte, Michele Santoro e Maurizio Costanzo decidono di fare una trasmissione congiunta, per denunciare la mafia, il raket, le complicità e le connivenze dentro la politica, la miopia della associazioni di categoria.

"Michele Santoro, che il giorno dell’omicidio si trovava all’estero, apprende della morte di Libero Grassi leggendo i giornali su un aereo che lo stava riportando a Roma. È scosso, vuole fare assolutamente qualcosa. Telefona a Maurizio Costanzo, insieme riescono a convincere i vertici di Rai e Fininvest a organizzare per il 26 settembre una staffetta televisiva contro la mafia e per Libero Grassi.
Dal teatro Biondo di Palermo, dove sedici anni dopo verrà inaugurata l’associazione Libero futuro, trasmette Michele Santoro e dal Parioli di Roma, Maurizio Costanzo. Tra gli ospiti, Giovanni Falcone, l’avvocato Alfredo Galasso, Claudio Fava.
La trasmissione, nonostante ci sia stata da neppure un mese un’altra vittima innocente di mafia, scatenerà polemiche strumentali contro «i malati di protagonismo dell’antimafia»".

Ecco, a quella serata era presente anche il magistrato Giovanni Falcone, allora distaccato presso il ministero della Giustizia.
Anche lui malato di protagonismo dell'antimafia.
Lo stesso Falcone che la giornalista Marcelle Padovani cita nel suo articolo, per accusare altri magistrati, quelli che oggi nella solitudine, portano avanti il processo sulla trattativa.
Anche loro, malati di protagonismo:

“Se Falcone era un magistrato solitario, oggi parecchi suoi colleghi pur dicendo di sentirsi isolati sono invece molto più vicini alla politica e ai mass media. Si sono lasciati prendere per mano dal protagonismo. E spesso hanno contribuito a costruire una autorappresentazione sacrificale del proprio lavoro diventando quello che mi son permessa di chiamare nuovi protagonisti dell'antimafia aiutati in questo dai media. Si sono orientati sulle teorie del complotto, dei retroscena e vorrei dire delle trame che probabilmente sono solo sulla carta”.
Tutto per dire che sono abbastanza stanco di vedere gli stessi attacchi strumentali, oggi come allora, contro i giudici che si addentrano nel territorio mafia e politica.
In quella stessa serata, un giovanissimo Totò Cuffaro, si alzò dalla platea accusando la trasmissione di fare giornalismo mafioso e attaccò una certa magistratura  "che mette a repentaglio e delegittima la classe dirigente siciliana".

40 anni dopo


Ma dopo 40 anni di inchieste, depistaggi, assoluzioni, annullamenti di sentenze, conti con la propria coscienza (sporca) mai fatti, armadi chiusi, c'è ancora una volontà civile, politica di fare giustizia sulla strage di Brescia?
Non parlo dei familiari delle vittime, delle associazioni come la Casa della memoria, persone come Manlio Milani. Ma del resto dei bresciani, dei lombardi, degli italiani cui dopo tanti anni, sarà rimasto solo un ricordo sbiadito. Chi ha messo la bomba? I fascisti? Le Br?
D'altronde la rai oggi manda in onda il film di Giordana su Piazza Fontana. Come mai? Cosa c'entra? Forse volete dirci che c'è un filo nero che lega le stragi?

Manlio Milani, sulla strage di Brescia, ha detto: "vorrei anche perdonare gli assassini, ma ditemi chi devo perdonare?".
Ebbene, Renzi ha aperto gli archivi sulle stragi degli anni di piombo: la mancanza di giustizia non permette a quei corpi di riposare in pace e ai sopravvissuti di smettere di chiedere verità e giustizia. Di poter perdonare in libertà di coscienza. La mancanza di verità impedisce a questo paese di poter andare avanti, lasciarsi indietro quegli anni bui. 

Sulla strage, i retroscena, i depistaggi, su chi erano le persone morte in quella piazza, vi invito a leggere il libro di Benedetta Tobagi "Una stella incoronata di buio".

27 maggio 2014

Vista dalla Francia la mafia è più lontana ...

Forse vista dalla Francia la mafia è diversa. Oppure sono passati tanti anni dall'ultima volta che se ne è occupata.
Altrimenti non saprei come spiegarmi l'uscita della giornalista francese Padovani in polemica contro i magistrati di Palermo che hanno istruito il processo sulla trattativa stato mafia:

“Se Falcone era un magistrato solitario, oggi parecchi suoi colleghi pur dicendo di sentirsi isolati sono invece molto più vicini alla politica e ai mass media. Si sono lasciati prendere per mano dal protagonismo. E spesso hanno contribuito a costruire una autorappresentazione sacrificale del proprio lavoro diventando quello che mi son permessa di chiamare nuovi protagonisti dell'antimafia aiutati in questo dai media. Si sono orientati sulle teorie del complotto, dei retroscena e vorrei dire delle trame che probabilmente sono solo sulla carta”.
Sono passati tanti anni dall'articolo di Sciascia, che pure l'autore riconobbe frutto di valutazioni errate. Eppure la tendenza ad accusare i magistrati di farsi pubblicità da soli non passa.
Risponde oggi alla giornalista il magistrato Gian Carlo Caselli sul FQ:

PRIMA E DOPO CAPACI
Falcone, tradito da vivo e da morto
di Gian Carlo Caselli
   Povero Falcone... In vita, coperto di calunnie tipo professionista dell’antimafia, uso spregiudicato dei pentiti e torsione della giustizia a fini politici (comunista!). Al Csm, tradito dai “giuda” che non lo avevano designato come successore di Caponnetto, nonostante avesse insegnato a tutti il metodo giusto per sconfiggere la mafia (di “giuda” parlò Borsellino nel trigesimo di Falcone, aggiungendo che aveva cominciato a morire proprio per l’infausta scelta della maggioranza del Csm).

   POI A CAPACI, massacrato dalla feroce violenza mafiosa insieme alla moglie e ai poliziotti di scorta. E dopo la strage, sacrosantamente celebrato come un eroe, ma spesso strattonato con l’obiettivo – parlando bene di lui – di colpire i magistrati ancora vivi che risultassero sgraditi. Qualcosa di simile (e inatteso) è successo il 23 maggio scorso nella ricorrenza della strage di Capaci, quando una voce autorevole

   – Marcelle Padovani – ha sostenuto che “Giovanni (Falcone) non avrebbe mai messo la sua firma in un’inchiesta come quella sulla trattativa”. Ora, come finirà questa inchiesta non è dato sapere, posto che è appena cominciata la delicatissima fase delle verifiche dibattimentali. Avranno ragione i colpevolisti o i negazionisti? Non si sa. E penso che entrare nel merito – oggi come oggi – serva soprattutto a togliere al processo un po’ di quella serenità che dovrebbe essere obiettivo di tutti. Ma non tocca il merito sostenere che nessuno – proprio nessuno – può arrogarsi il diritto di stabilire come si sarebbe comportato Falcone. Prima di tutto (ed è tragicamente ovvio) perché Falcone è morto. Ma soprattutto perché dopo le stragi è cominciato – letteralmente – un mondo nuovo, quasi una nuova era geologica, che rende quantomeno avventata ogni ipotesi basata sul passato. Tutto, proprio tutto, è cambiato. In particolare sul versante delle indagini relative ai rapporti fra mafia e politica. Una prova concreta? Su questo tema, Buscetta (pur avendone già ampiamente riferito in Usa) aveva opposto un rifiuto a Falcone, perché altrimenti lo avrebbero preso per matto e tutta la sua inchiesta sarebbe abortita. Invece, dopo le stragi, Buscetta si è sentito come obbligato a saltare il fosso, anche nel ricordo di Falcone, rivelando quel che sapeva su mafia e politica.

   COSÌ SPALANCANDO – appunto – le porte di un nuovo mondo. E in un mondo stellarmente diverso da quello tramontato col suo sacrificio, nessuno può presumere di poter dire come Falcone avrebbe agito. Tanto più che il mondo stava cambiando non solo per effetto di “mafiopoli” ( i tanti, doverosi processi a imputati eccellenti “sdoganati” dalle stragi, in un quadro di risposte vigorose sul piano “militare”), ma anche per effetto di “tangentopoli” e di una conseguente esplosione – senza precedenti – dell’indipendenza di una giurisdizione rafforzata. Certo è che Falcone aveva la schiena ben dritta e non era certo un magistrato capace di privilegiare, tra le varie opzioni, quelle “comode”. Com’è certo che egli aveva il pregio della coerenza e che per lui non erano vuota retorica le parole che denunziavano: “Una singolare convergenza tra interessi mafiosi e interessi attinenti alla gestione della cosa pubblica... un retroterra di segreti e inquietanti collegamenti che vanno ben al di là della mera contiguità e che debbono essere individuati e colpiti, se si vuole davvero voltare pagina”.

   Dunque, logica vuole che ci si fermi prima di oltrepassare la soglia della evocazione dei morti per trarne elementi da proiettare sul presente. Lasciamo ad altri e alla loro infinita diversità certe performance. Non dimentichiamo quel direttore sul cui giornale – pochi mesi prima di Capaci – fu scritto che semmai Falcone fosse riuscito a diventare Procuratore nazionale antimafia ci sarebbero state due cupole mafiose, una a Palermo e l’altra a Roma, per cui era conveniente tenere a mano il passaporto.

   LO STESSO GIORNALISTA

   che dopo le stragi si convertì, proclamando che Falcone si era sempre ispirato a un metodo esemplare basato sul “rigore della prova”. Ma con l’evidente proposito di piegare questo (tardivo) riconoscimento della verità al vero obiettivo di infierire sulla Procura di Palermo del dopo stragi, diretta dal sottoscritto: con la tesi strumentale e strampalata di un ufficio che tradiva sistematicamente il metodo Falcone, privilegiando i “teoremi” politici e rendendosi “schiavo di un’impostazione ideologica e moralistica” che puntava “esclusivamente sui rapporti tra mafia e politica”, mentre Falcone non avrebbe neppure mai creduto all’esistenza di un “terzo livello”. Balle, ma comode per svalutare l’azione di chi stava cercando di provare, per fatti di mafia, una responsabilità penale di Andreotti e Dell’Utri che sarà alla fine confermata dalla Cassazione. 


Le regole

Ieri, a mezzogiorno, ho seguito la conferenza stampa di Renzi: mi sono piaciuti i toni e anche le argomentazioni. 
Ecco, magari va ricordato che le mezze riforme così come sono non vanno proprio bene.
Che ora più che mai salirà la posta richiesta da B. per andare avanti assieme.

Ma su una cosa Renzi dovrebbe fare in fretta più di altre: è passato quasi un mese dal blitz sui manager di Expo. Che fine han fatto i super poteri a Cantone?
E la famosa proposta di legge anti corruzione, con il tanto reclamato falso in bilancio, blocco della prescrizione, reato di autoriciclaggio?
E poi, van bene gli 80 euro, il cronoprogramma sulle riforme, la richiesta di cambio di marcia in Europa. Ma sarebbe più credibile se iniziassimo a mettere mano alle regole del gioco.
Le authority di vigilanza stanno facendo il loro lavoro?
Dai casi Unipol-Sai non sembrerebbe.
L'inchiesta sulla banca Carige è un altro esempio: tiri un filo e viene fuori tutto, la curia, i banchieri, i contatti con la magistratura.

E la politica riesce a fare pulizia al suo interno senza che intervenga prima la magistratura?

Greganti era iscritto al PD (sempre quello votato dal 40% degli italiani) ed è stato vicino al gruppo dirigente di Torino.
Per non parlare del caso dell'ex ministro Scajola che ha fatto fuggire il latitante. Che forse sapeva dei rischi che correva Biagi e non ha fatto nulla.
Del ministro dell'ambiente coinvolto in un'inchiesta per corruzione, legata ai finanziamenti per progetti di riqualificazione ambientale all'estero.
Insomma, sarebbe tutto più credibile, se ci fosse dentro qualcosa di più concreto.
Che riguarda le regole del sistema e il loro rispetto.

Report - la grande ricchezza

Che impatto potrebbero avere, sul PIL, sull'occupazione, sul rilanscio industriale, i progetti che arrivano dal basso, grazie alle nuove idee, alle tecnologie open source, se queste fossero messe a aistema dall'Europa e finanziate con un fondo ad hoc, dalla banca europea degli investimenti, magari con la garanzia di bond?

Abbiamo un'enorme ricchezza nelle nostre mani e non riusciamo a farla fruttare: e non mancherebbero nemmeno i soldi, visto che molti fondi di investimento non aspettano altro che avere buone idee (e sicure) su cui puntare.
Il bel servizio di Michele Buono per Report ha mostrato quanto il futuro per l'Italia e per l'Europa sia a portata di mano, basta solo avere la volontà politica di farlo.

A Berlino e a Bruxelles i sindacati (tedeschi) hanno proposto un piano sindacale per la creazione di un fondo europeo per fare investimenti nell'economia reale, non per fare speculazione dunque. Sono 2500 miliardi in 10 anni, secondo le stime dei sindacati: l'impatto di questo fondo, garantito dagli stati e finanziato anche da privato è stato stimato sia in termini di PIL (che aumenterebbe di qualche punto percentuale) che in termini di  posti di lavoro.

Parliamo della bottega di Rimini dove la Vyrus produce moto su misura con tecnologie all'avanguardia, fatte a mano: ogni moto è scelta dall'acquirente e venduta singolarmente.
I designer stranieri sono contattati via internet e, sempre via web, sono vendute le moto. Niente catena di produzione e niente negozi.
Andrea Sartori è un musicista che si è costruito una app su Iphone con cui far suonare gli strumenti che ui stesso si costruisce. Grazie alla tecnologia delle stampanti 3d.
Lo smartphone diventa una strumento per fare musica: i pezzi per i suoi strumenti sono prodotti a Bologna e la tecnologia si basa su Arduino.

Arduino è una scheda di rete, prodotta in Italia, ad Ivrea, dalle potenzialità enormi: si possono costruire schede da montare su robot per la pulizia dei cantieri, come ha fatto un'azienda a Montebelluna.
A New York hanno costruito, a partire dal kit di Arduino, un braccialetto con raggi infrarossi per dare una "visione" a dei non vedenti.
Questa è la vera rivoluzione: mettere in mano a tante persone una tecnologia aperta e a costi alla portata di tutti.
Ma mentre in America la politica si è accorta del fenomeno Arduino (e già si parla di impiantare una nuova Silicon Valley), in Italia i tecnici del ministero dello sviluppo hanno segnalato al ministro competente le potenzialità. E ancora aspettano una risposta.
Di Buono ha intervistato sia il d.g. del ministero dello sviluppo, Tripoli, che Michele Banzi cofondatore del progetto Arduino.
In Italia, grazie a questa scheda "open" si sta impiantando una nuova filiera di aziende manufatturiere, ad alta competenza tecnologica. Un ecosistema che porterebbe degli impatti positivi sul lavoro, sull'urbanistica, sull'industria, sull'educazione.
Certo, se poi il ministro competente, anziché stare ad ascoltare queste novità e metterci su il cappello, si mette a giocare col suo iphone (parliamo di Passera, il banchiere-politico di sistema):

MILENA GABANELLI IN STUDIO
Visione politica appunto. È ricchezza anche quella di avere dei dirigenti competenti che sanno vedere in che direzione va il mondo e scrivono dei piani. Le decisioni però poi le prende il ministro, se gioca con l’iphone quando chi ha delle idee gli va a spiegare le cose, non è che vai lontano. Pare fosse l’ex ministro Passera. Comunque le eccellenze che abbiamo visto stanno dando vita ad un nuovo modello produttivo e la politica che sa guardare lontano lo porta in una infrastruttura dentro la città, vale per l’Italia come per il resto d’Europa.
Un altro ambito dove si potrebbe investire è la riqualificazione di aree urbane: a Roma, quartiere Tiburtina si potrebbe insediare una nuova azienda, dentro la città.
Perché questa azienda produce motori con un procedimento innovativo, senza fusione. Dunque che ha bisogno di meno energia e che non richiede impianti enormi.
L'azienda, in città, potrebbe essere costruita vicino a scuole, vicino alla stazione per il trasporto pubblico. I posti di lavoro richiederebbero la costruzione di nuove case, anche per edilizia popolare.
A Barcellona hanno riqualificato un intero quartiere grazie a fondi privati.
Perché non farlo anche in Italia?
E' un modello urbanistico che potrebbe essere applicato in tutta Italia e in tutte le città europee.

Trasporti intelligenti e reti elettriche intelligenti.
A Chemnitz, in Germania, il tram diventa un treno appena esce dalla cità. In questo modo un unico mezzo porta la gente al lavoro e la riporta a casa.
E attorno alla linea del treno/tram si sviluppano i paesi.

A Emmedingen, il comune ha assunto un manager pubblico col compito di convincere le famiglie che è conveniente fare lavori di ristrutturazione per la casa, per far consumare meno energia.
Teleriscaldamento prodotto da caldaie a Pellet, energia che viene messa in rete per le altre case.
Le case vengono ristrutturate, le bollette si riducono e l'energia prodotta non si disperde.

Per non perdere energia esistono le reti elettriche intelligenti capaci di regolare la produzione e il consumo di energia: a fianco della linea elettrica c'è una seconda linea dati dove viaggia l'informazione.
Con questa tecnologia si potrebbe usare l'energia eolica prodotta nel nord Europa di notta, per pompare acqua nei bacini idraulici che produrrebbero energia di giorno, che potrebbe essere trasmessa nei paesi del sud.
Servirebbe una rete elettrica europea veloce e intelligente: è una rete che ha un costo stimato di 600-800 miliardi di euro in 10 anni.
Sono tanti? Ogni anno spendiamo 450 miliardi per comprare petrolio e gas.
Con la rete intelligente potremmo essere indipendenti dai paesi fornitori di petrolio, come la Russia.
Ma, anche qui, servirebbe una comune visione politica in Europa.
Mentre noi siamo ancora qui a discutere di nazionalismi, no euro e di petrolio.

Intelligenza in rete
Ci sono tante scuole che, a macchia di leopardo, mettono in rete la conoscenza, creando ebook, materiali che integrano la conoscenza e la rendono disponibile a tutti.
In queste scuole si parla inglese, si lavora direttamente in rete.
Ma serve una infrastruttura veloce, per la rete.
E una visione didattica comune del ministero dell'istruzione, per non disperdere queste esperienze.
Ma fino a ieri al ministero c'era una che spendeva milioni con le pillole della conoscenza ..

Si deve investire sulla conoscenza e sulle persone. Non si può continuare a ripetere che non ci sono soldi, perché così si alimentano i partiti contrari all'Europa.

BERNADETTE SEGOL - SEGRETARIA GENERALE CONF. SINDACALE EUROPEA
Finché non si esce da questa credenza, da questo pensiero unico che non si può investire perché non bastano i soldi e che la prima cosa da fare è ridurre le spese e continuare le misure d’austerità, questi investimenti non si faranno mai.
MICHELE BUONO
Ma quando siete andati dal Presidente della Commissione Europea e gli avete detto che si tratta di investimenti utili che vi ha risposto?
BERNADETTE SEGOL - SEGRETARIA GENERALE CONF. SINDACALE EUROPEA
Il Presidente della Commissione Europea ci ha detto “è una buona idea ma non abbiamo i soldi, dobbiamo continuare a ridurre il deficit pubblico e in questo momento non è politicamente possibile”. Semplicissimo! No?
MILENA GABANELLI IN STUDIO
Non è colpa loro, è il sistema che li ha espressi che ha portato alla recessione. Un sistema che dobbiamo cambiare altrimenti è evidente che in un sistema così l’euro non funziona, c’è modo di aggiustarlo remando in un'unica direzione che è quella della federazione, perché a quel punto il costo del denaro è uguale per tutti e non ci sono più figli e figliastri. Pensate che l’idea che ha avuto l’Europa per aggiustare il rapporto debito PIL, è quello di calcolare da quest’anno anche il “fatturato” proveniente da spaccio di droga e prostituzione. Per carità! Dal nuovo parlamento che s’insedierà da domani ci aspettiamo che il PIL lo faccia crescere trasformando in ricchezza le idee che abbiamo visto.

26 maggio 2014

La nostra grande ricchezza

Premessa: le elezioni europee hanno premiato la speranza di Renzi (e stoppato la crescita del M5S). L'uomo solo al comando, che prima delle elezioni aveva però messo le mani avanti, temendo il botto di Grillo.
Ma ora la campagna elettorale è terminata: l'ora di ricreazione è finita. Ora è il momento di fare i nostri compiti a casa. Da dove vogliamo partire? Dalla legge contro la corruzione che ci metterebbe al riparo per Expo e per le altre tangentopoli?
Da un piano di difesa del paesaggio e per la messa in sicurezza del paese contro alluvioni, frani e terremoti?
Da un piano industriale ed energetico per capire dove investire (e dove smettere di foraggiare in perdita) per creare questi posti di lavoro?
Dal riprendere col piano sulle scuole, da mettere a norma?
La svolta buona inizia da qui, gli 80 euro sono solo l'inizio. Ora Renzi la legittimazione popolare l'ha presa tutta. Qui si parrà tua nobilitate.

L'inchiesta di Michele Buono potrebbe essere di spunto, per capire che direzione prendere, dal punto di vista industriale: la nostra ricchezza non è il petrolio. Le opere d'arte e i beni culturali da soli non possono garantire un futuro per il nostro paese. L'agricoltura è a rischio estinziome. La grande ricchezza del nostro paese è nella nostra inventiva, nelle nostre idee che fanno la fortuna di tante piccole imprese che però, non hanno la capacità di fare sistema, di fare massa.

Il servizio di Report mostrerà come, in una bottega a Rimini, si fanno le moto a mano, su misura, realizzando un prodotto tecnologicamente avanzato.
Siamo noi che realizziamo motori di aeroplano senza fusione.
Grazie alle stampanti 3d, è più semplice realizzare prototipi per nuovi prodotti. Le piccole imprese non hanno più bisogno di grossi investimenti alle spalle, né devono aspettare mesi per la messa in produzione.
Sono tutte tecnologie che se passano nelle mani della gente comune diventano una rivoluzione. Perché rendono la realizzazione di un sogno industriale alla portata di tutti.

E' una tecnologia creata dai progetti open source, come Arduino: una scheda elettronica che viene usata da alcuni studenti americani per creare braccialetti, per aiutare i non vedenti. Arduino è un progetto open source partito da Ivrea.
Arduino è un futuro, mentre la Fiat va all'estero.
E poi ci sono i nuovi modelli per la costruzione urbanistica, modelli di impresa, di sistemi energetici. 
E' una ricchezza enorme che abbiamo in Europa, ma spesso non ce ne rendiamo conto. O comunque non se ne è ancora accorta la politica.
Che ancora insegue le grandi opere, il cemento, lo shale gas...

La scheda della puntata: "LA GRANDE RICCHEZZA" di Michele Buono
L'economia, si sa, ha sempre girato sulle idee, quelle semplici ma geniali, quelle che cambiano il mondo. I soldi seguono le idee e fino a quando non è chiaro queste idee cosa, come e quanto sono in grado di muovere, i soldi restano fermi. La crisi è anche questa. Ci sono in giro nuove idee tipo la lampadina o il motore a vapore, che sono in grado di cambiare le nostre vite? E soprattutto c'è in giro chi è in grado, per preparazione e cultura, di capirle e aiutarne la diffusione?
La società dal basso spinge e ci prova. Il resto toccherebbe alla politica.L’inchiesta di Report firmata da Michele Buono in onda lunedì 26 maggio alle 21.05, è una simulazione: che impatto economico e sociale ci sarebbe se gli esempi migliori di progetti nel campo della manifattura digitale, dei nuovi modelli di impresa, del trasporto, dell’efficienza energetica, dell’urbanistica, della formazione e dell’istruzione, si trasformassero da segnali sparsi di eccellenza in un sistema diffuso e integrato a livello europeo?Ricadute positive immediate di un piano di investimenti decennale in Europa? Aumento del Pil, maggiori entrate fiscali, crescita dell’occupazione e conseguente diminuzione dei costi della disoccupazione, diminuzione del rapporto debito/Pil degli stati insieme a un miglioramento della qualità della vita – calcolano i sindacati che propongono il piano e convengono le istituzioni europee e la Banca europea degli investimenti quando gli si sottopone il progetto.E allora qual è il problema? Tecnicamente è facile creare denaro ma è altrettanto facile bruciarlo e indebitarsi ulteriormente. È una questione di visione politica, di progetti adeguati e di buona ed efficiente amministrazione che li gestisca.
L'anteprima su Reportime

Gli altri servizi:
Per la rubrica Com'è andata a finire: "COSÌ FAN TUTTI" di Giovanna Boursier
Ritorniamo sull'Aci, l'ente pubblico senza fine di lucro che ha 106 Automobil Club. A luglio si rivota al Club di Milano, e in una lista i candidati sono sempre gli stessi. È quello che controlla l'Autodromo di Monza, il cui intero vertice è stato rinviato a giudizio.
Il filtro antiparticolato è, ormai, obbligatorio per legge su tutti gli autoveicoli diesel. É un dispositivo che dovrebbe inquinare meno permettendo alle automobili e ai camion di entrare nei centri urbani. In realtà produce sostanze pericolose e dà numerosi problemi tecnici. Come è stato possibile omologarlo e chi ha favorito questo nuovo dispositivo?


Vi aspettano: Rosario Livatino e Girolamo Minervini

Gli ultimi due magistrati di cui parla il libro di Antonella Mascali: il giudice “Ragazzino” (come li aveva apostrofati il presidente Cossiga) ucciso dalla mafia sulla statale Agrigento Enna e il giudice che prese il posto di direttore generale degli istituti di prevenzione conoscendo tutti i rischi che avrebbe corso.


Rosario Livatino era un giudice che credeva nell'indipendenza della magistratura, che riteneva opportuno che i colleghi che si candidavano in politica dovessero togliersi la toga definitivamente e che temeva la responsabilità civile dei magistrati perché avrebbe costituito una minacciato l'azione penale e spinto all'inazione.
La sua etica:
“è da rigettare l'affermazione secondo la quale, una volta adempiuti con coscienza e scrupolo i propri doveri professionali, il giudice non ha altri obblighi da rispettare nei confronti della società e dello Stato e secondo la quale, quindo, il giudice della propria vita privata possa fare, al pari di ogni altro cittadino, quello che vuole. Una tesi del genere è, nella sua assolutezza, insostenibile”.

Fu ucciso da un commando mafioso il 21 settembre 1990: stava andando ad inseguire i piccioli dei mafiosi, soldi, case, beni. Sulla sua agenda di lavoro fu trovata la scritta “Sub tutela dei”.


Girolamo Minervini prese il posto, come direttore degli istituti penitenziari, che prima era stato di Riccardo Palma e GirolamoTartaglione. Entrambi uccisi dalle Br nel 1978.
Sapeva che rischiava di essere ucciso anche lui, ma rifiutò la scorta, per non mettere in pericolo altri ragazzi.
Al figlio disse una frase che andrebbe scolpita in tutti i luoghi istituzionali “In guerra un generale non può rifiutare di andare in un posto dove si muore”.
Come Mario Amato, i suoi killer lo aspettarono alla fermata dell'autobus il 18 marzo 1980.

Il presidente della Repubblica Pertini al funerale scoppiò “Morti, morti, morti. Cos'è diventata l'Italia?”

Guido Galli – nel mirino dei terroristi perché lavorava bene

Della vita di Guido Galli, procuratore della repubblica di Milano ucciso da Prima Linea il 19 marzo 1980, ignoravo un episodio raccontato da Antonella Mascali in “Vi aspettavo”: anche era lui fu chiamato a rispondere davanti al CSM per un provvedimento disciplinare. Per aver protestato contro lo spostamento del processo sulla strage di Piazza Fontana a Catanzaro.
Come Paolo Borsellino e come altri magistrati che, proprio per il rispetto della Costituzione su cui hanno giurato, non possono esimersi dal commentare le leggi, i provvedimenti di governo e Parlamento. E della Cassazione.
Come Mario Amato, anche Galli fu lasciato solo ad occuparsi dei fascicoli sul terrorismo, rosso, che i colleghi rifiutavano, per paura delle conseguenze. Lui, il magistrato di cui non tutti si fidavano, il magistrato rosso.



Non ignoravo invece il particolare, illuminante sulla grandezza della persona, ricordato dal collega e amico Armando Spataro (assieme a cui aveva lavorato per l'indagine su Corrado Alunni e i brigatisti milanesi): morì col codice accanto, mentre si stava recando a fare lezione nell'aula 309 della Statale.
Per un suo ricordo, ci affidiamo alla testimonianza di Vittorio Grevi giurista:
Guido Galli era un magistrato moderno, di idee aperte e liberali, di sicuri sentimenti democratici, che si sforzava anzitutto di svolgere bene il suo lavoro, in silenzio, giorno per giorno: così da assicuare il buon funzionamento della macchina giudiziaria, pur operando sempre nel pieno rispetto delle garanzie degli imputati. Ma era anche, nel contempo, un magistrato aperto sul futuro, sensibile alla esigenza di adeguamento del nostro sistema processuale alla Costituzione e alle Carte internazionali sui diritti dell'uomo”.
Chissà se i legali di Berlusconi, gli avvocati onorevoli Longo e Ghedini sapevano queste cose prima di scrivere su Alessandra Galli, che è stata giudice nel processo sui diritti Mediaset, che “i tragici fatti personali certamente inficiano la serenità di giudizio” di chi ha criticato “l'operato di Berlusconi”.

Paolo Borsellino – il magistrato che aveva visto la trattativa muoversi in diretta

Cosa aggiungere alla storia del giudice Paolo Borsellino? Travaglio nel suo spettacolo ha raccontato del depistaggio messo in atto da pezzi dello stato per imboccare la facile pista di Scarantino. Dell'ipotesi che l'amico frraterno di Falcone sia stato ucciso perché, avendo saputo dai Ros (Mori e De Donno) della trattativa, si sarebbe messo di mezzo.
Che raccontare ancora? Il suo suo senso dello stato, delle istituzioni e l'importanza del rispetto delle leggi.
Lo racconta egli stessi agli studenti:

"Se il mio vicino, il mio contraente, non mi paga, io devo essere in condizione di rivolgermi ad un giudice che lo condanni a pagare e che mi assicuri la possibilità di riprendermi quello che gli ho dato, di eseguire le esecuzioni immobiliari, pignoramenti e così via. Quando tutte queste cose non funzionano, cioè quando tutto questo clima di reciproca fiducia non viene assicurato dallo Stato, non funzionano perché la società civile non è ben vigilata dalla presenza pesante dello Stato; quando, nel caso di controversie nascenti tra le parti, lo Stato, con un'amministrazione della giustizia che è allo sfascio o inefficiente, non assicura la possibilità di risolvere pacificamente queste libere contrattazioni, allora, se esiste, se storicamente si è formata un'orgazzazione criminale in grado di assicurare qualcosa del genere, un surrugato di questa fiducia che lo Stato deve poter assicurare a tutti i cittadini, ecco che queste organizzazioni traggono forza, perché un surrugato di questa fiducia l'organizzazione criminale di tipo mafioso riesce ad assicurarlo. [..]Io posso rivolgermi a taluno al quale pagherò una tangente, un pizzo; in realtà mi da un servizio, mi protegge, nel senso che assicura che la mia fabbrica non sarà oggetto di attentati o non mi faranno ruberie o qualcosa del genere. La mafia nasce, si presenta, come qualcosa che assicura questi servizi. Naturalmente questi servizi non li può presentare a tutti perché per dare a uno deve togliere all'altro. Mentre la fiducia che lo Stato dovrebbe garantire - evidenziò Borsellino - riguarda imparzialmente tutti i cittadini, la fiducia che distribuiscono le organizzazioni criminali è una fiducia a somma algebrica zero perché, per fare il vantaggio di uno, le organizzazioni criminali devono fare necessariamente lo svantaggio dell'altro".
L'assenza dello stato, nell'assicurare i diritti ai cittadini, rafforza le mafie. Sono cose che diceva, invano, già Dalla Chiesa dieci anni prima.



Paolo Borsellino è uno dei magistrati citati da Antonella Mascali nel suo ultimo saggio “Vi aspettavo” .

25 maggio 2014

Non è una canzone d'amore - la presentazione a Milano





Questa mattina, oltre alle elezioni europee, avevo un'altro appuntamento in agenda: la presentazione del libro di Alessandro Robecchi "Questa non è una canzone d'amore", alla libreria Centofiori in piazza Dateo a Milano, assieme a Pietro Rechi. 


Presentazione condotta da Pietro Rechi e dove Rebecchi ha esordito subito parlando della sua Milano, una città che Rebecchi considera "città orizzontale" e socialmente a comparto stagno: nel suo romanzo queste classi vengono rimescolate e messe in contatto perché "mi piaceva l'idea di far interagire le classi sociali".
Protagonista un autore televisivo pentito e due suoi collaboratori: la precaria nata nella generazione dei computer e il giornalista capace di scoprire tutto.
Avendo un personaggio giovane, era logico parlare del precariato.

Oltre a questi tre, ci sono due coppie di killer: una di professionisti e una improvvisata.
La terza coppia di killer, i due Rom che arrivano al campo per vendicarsi di chi ha lanciato le molotov (per una storia di speculazione edilizia ...): "mi piaceva l'idea di una Spectre dei rom che va a caccia dei cattivi nel mondo".
Tre coppie di killer per "tre moventi di caccia diversi che mi ha dato modo di girare Milano e i suoi bar, quelli veri".Altri personaggi degni di citazione (senza scoprire troppo la storia): Marzia la proletaria senza rivoluzione.  E i poliziotti che sono nel libro, sono i più fessi.
Milano e i suoi luoghi comuni: i luoghi comuni (una città grigia) hanno dentro un pizzico di verità: Milano la città grigia, la città dove si lavora molto ..

Non è vero: Milano ha delle albe bellissime (e l'autore ha ricordato le mattine in cui si svegliava presto per andare a lavorare a Radio Popolare).
E non è le città grigie sono altre, dice uno dei due rom all'altro.

Perché scrivere un libro?
Per la voglia di cambiare registro, dopo anni in cui ha sempre scritto per la televisione, per la radio, con dei paletti sulla durata dei testi.
Con questo libro ho voluto scrivere una storia con un inizio uno svolgimento e una fine.
Senza paletti: ho avuto la sensazione di sentirmi come in una prateria libera.


Speriamo che sia una sensazione che riesca a riprovare per una prossima storia. Noi l'aspettiamo.

PS: queste sono immagini della Milano di oggi, con gli alberi piantati in piazza Duomo.


Morte di un uomo felice, di Giorgio Fontana

Incipit
Dunque volevano vendetta. Colnaghi annuì un paio di volte fra sé, come a raccogliere idee che non avevao che ancora erano troppo confuse: poi appoggiò le mani sul tavolo e guardò di nuovo il ragazzino cheaveva parlato.Nell’aula messa a disposizione dalla scuola materna del quartiere c’era silenzio: macchie di sudore sottole ascelle, le pale del ventilatore che giravano piano. Tutti aspettavano una sua risposta, l’ennesima parola buona. I parenti e gli amici della vittima erano una trentina.Vissani era stato un chirurgo, esponente in vista dell’ala più a destra della Democrazia cristiana milanese: cinquantadue anni, biondo cenere, grassoccio. La fotografia deposta sotto la cattedra era circondata da mazzi di fiori. Forse Colnaghi l’aveva visto una volta o due, negli anni precedenti: di lui aveva letto sul «Corriere», magari un articolo di fondo nelle pagine locali, per la posizione che stava guadagnando nel partito. A Colnaghi non piaceva quella Dc, ma chissà: magari tempo addietro si erano persino stretti la mano, presentati da un collega che voleva far carriera: magari in una sera di metà maggio, quando Milano è attraversata dalle rondini e la luce ha un colore inafferrabile: forse entrambi erano felici in quel momento, e forse Vissani aveva riso a una battuta di Colnaghi battendosi una mano sul ginocchio: e altrettanto alla svelta il medico aveva rotto il buon umore del magistrato con un’uscita infelice, una delle tante che lui aveva potuto rileggere nel faldone dell’istruttoria – qualcosa di spiacevole sui giovani o sulla necessità del pugno duro da parte del governo. Sia come sia, poi era andata così: quel tipo volgare, odioso e incolpevole era stato ucciso il 9 gennaio 1981, a tarda sera, dalle parti di piazza Diaz.
Due proiettili calibro 38 SPL. Sei mesi prima. Omicidio rivendicato da Formazione proletaria combattente, una cellula scissionista delle Br. Caso ancora aperto, in mano al sostituto procuratore Colnaghi.
Ecco, mi trovo qui, a fine lettura di questo splendido romanzo, con un certo imbarazzo nel dover scrivere le mie impressioni. Imbarazzo perché parliamo di un libro che abbraccia tanti argomenti, con una profondità e con una maturità sorprendenti, se si pensa che è stato scritto da un ragazzo nato dal 1981.
In “Morte di un uomo felice” si parla del senso di giustizia contrapposta al desiderio di vendetta, del terrrorismo e della lotta partigiana (cui i terroristi dicevano pure di ispirarsi). Della difficoltà di portare avanti l'idea di giustizia in un mondo imperfetto, tanto più imperfetto quale era l'Italia degli anni di piombo, dove i terroristi uccidevano magistrati, giornalisti, poliziotti, medici, avvocati ..
La guerra asimmetrica portata avanti nel loro delirio rivoluzionario, compiuto a colpi di pistola.
Questa è la storia di un magistrato, cattolico ma non bigotto, ligio ai suoi doveri ma anche capace di essere flessibile (“errori mai, eccezioni sempre”), con un'idea precisa della giustizia, progressista diremmo oggi.
Giacomo Colnaghi, cresciuto in provincia a Saronno e figlio proprio di uno di quei partigiani che, per un'ideale di Italia più libera e giusta, morì a poco più di venti anni: non ancora quarant'enne è già in prima linea nella lotta al terrorismo.
Assieme a due colleghi del tribunale di Milano, deve indagare sulla morte di un notabile democristiano, ucciso da una piccola cellula del brigatismo rosso, nella Milano del 1981.
Anni terribili, dove il terrorismo rosso in fase calante uccide uno dopo l'altro proprio quei servitori dello Stato che rendevano più credibile la loro funzione nelle istituzioni.

Nel 1980, solo a Milano sono stati uccisi il procuratore Guido Galli da Prima Linea, il giornalista Walter Tobagi dalla Brigata 28 marzo. Le Brigate Rosse uccidono Renato Briano, dirigente dell’impresa metalmeccanica Ercole Marelli, e Manfredo Mazzanti, dirgente della Falck.
L'anno prima era stato ucciso Emilio Alessandrini, altro magistrato milanese.


Ma il romanzo non si sviluppa come un poliziesco, bensì l'indagine sull'omicidio dell'esponente Dc diventa l'occasione per riflettere sull'animo di questi giovani che per un'ideale distorto impugnano una pistola: cosa vogliono veramente, da che spirito sono animati?

Giacomo ha un faccia a faccia intenso con uno di questi (Gianni Meraviglia), catturato dopo un blitz delle forze dell'ordine: lo scontro tra il giudice e il terrorista è indicativo delle due visioni della giustizia. Una, concepita come vendetta per dei torti subiti da una classe sociale (quella della classe operaia), l'altra che vede, nella giustizia dello Stato, il solo modo per sanare i contrasti.
«I mezzi e i fini devono stare alla stessa altezza», disse Colnaghi. «Altrimenti tutto è perduto. E naturalmente non vi è mai passato per la testa che quelle singole persone che giudicate siano persone qualsiasi, vero? Senza connessione alcuna con i centri del potere che volete piegare. Padri di famiglia senza colpe, semplici individui che facevano il loro lavoro. Che cercavano di rendere migliore lo Stato che voi tanto odiate. No, erano tutti dei boia, tutti meritevoli di un proiettile nelle gambe o nello stomaco. E' così, vero? Nessun appello, nel tribunale popolare». 
Meraviglia si limitò a fare una smorfia schifata e scuotere la testa: «Se facevano quel lavoro significa che avevano scelto di difendere lo stato di cose: dunque erano corresponsabili. Mi dispiace per loro come esseri umani, anche se so che non mi crederà. Ma questa è una guerra, e in ogni guerra si sceglie da che parte stare. Noi abbiamo scelto quella degli umili. E ogni padrone che cade ripaga del dolore di migliaia di poveri cristi innocenti, di migliaia di disoccupati, di migilaia di persone che fanno la fame. Dà loro speranza che qualcosa cambi. Che non sono soli».«No, si sbaglia. Questa è solo vendetta, e non cambia le cose, vi fa sentire semplicemente meglio. Occhio per occhio, dente per dente, ma dov'è tutta la speranza di cui parla? Sono anni che sparate e la gente ha solo paura di voi: perché di fondo lo sa. Di fondo sa che inseguite un delirio, che non è questa a strada per uscirne».Sostennero lo sguardo. Meraviglia si passò la lingua sulle labbra riarse, poi tossì: «E quindi il problema come si risolve?», disse. «Avanti. mi spieghi un po'». 
Colnaghi alzò le braccia per indicare loro due: «Parlando. Trovandoci a metà strada nei bar, nelle chiese, nelle piazze. Così forse finalmente ci si conosce, tutti insieme, e si capisce che siamo in tanti a volere un'altra Italia».[..]«Ma lei cosa cazzo ne sa? Lei parla, parla, ma cosa ne vuole sapere? Ha mai vissuto quello che abbiamo vissuto noi? Ha mai provato quel dolore, quella rabbia - e quella fratellanza che ti da solo la causa? No. Lo sa cosa vuol dire vedere due poliziotti che spaccano denti a una ragazza, durante un corteo? Lo sa quante volte ho difeso un compagno dall'aggressione di un fascista? No. Può giudicarci: si limiti a questo. Capire, non potrà mai, e sa perché?». Indicò la stanza che li conteneva. «Perché lei pensa di avere ragione e vuole parlare, ma mi tiene in catene. E io penso che se il sistema è spietato, ho il diritto sacrosanto di esserlo anch'io; e colpendone i simboli posso indebolirlo fino a spezzarlo. Fine del discorso. Ma si ricordi che da parte sua non c'è ragione o giustizia: c'è solo una differenza di potere[..]» 
Colnaghi cominciò a sentire le proprie parole staccarsi dal corpo come particelle di cui non comprendeva la provenienza: eppure non aveva vergogna ,né timore : si stava confessando , non era più lui l'interrogatore - un momento che aveva, forse, atteso da tempo: «No, è proprio questo il punto», disse. «Io non posso considerare gli uomini come dei simboli , o dei mezzi da usare per cambiare le cose. Non ci riesco, e non tollero che questa mostruosità venga chiamata giustizia. E certo, so che la nostra democrazia è piena di ombre, di errori spaventosi. Ma con tutte le sue ombre, se non altro può migliorare: può fermare l'onda dell'odio , può farla finita con i fascisti, può combattere il male che si porta dentro. Invece l'omicidio di un uomo - di un uomo inerme, Dio mio, di un uomo colpito alle spalle - non si corregge: e non serve a nulla. Lascia solo una sofferenza incolmabile, una scia di domande che non trovano risposta». 
Alzò la testa, strinse i denti più forte che poteva.«Volete fare la rivoluzione, ma tutto quello che avete ottenuto è ammazzare delle persone».«Gliel'ho detto, è una guerra: e in guerra ci sono sempre dei morti. Cosa crede, che i partigiani ..»«Voi non siete i partigiani!», grigò Colnaghi alzandosi di scatto, e Meraviglia si chinò d'istinto piegando la testa.«Ha capito? Mi ha capito? Non siete i partigiani!»Pagina 197-199
Le pagine della storia al presente, la primavera estate del 1981, si intrecciano alle pagine in cui si racconta la storia del padre Ernesto, operaio di fabbrica, che entra nelle file dei partigiani. Prima per distribuire volantini ai compagni in fabbrica, poi per compiere azioni di sabotaggio sempre più pericolose.
C'è spazio, nella storia, anche per riflessioni più intime: l'assenza del padre nella sua giovinezza, che dedicò i suoi ultimi pensieri proprio al figlio.
L'indagine interiore del protagonista prosegue con le difficoltà nel rapporto con la moglie, per il suo lavoro. La lontananza dai figli, specie dal più grande. L'impressione di non essere un buon padre.

E poi c'è la Milano vista dagli occhi del protagonista: i suoi giri in bici, le osterie vecchio stile, i viaggi in tram. Il quartiere del Casoretto col deposito dei tram, viale Porpora, il parco Trotter.


C'è tutto questo nel bel libro si Giorgio Fontana, che costituisce assieme al suo primo libro "Per legge superiore" un dittico dentro il mondo dei Tribunali e dei palazzi di giustizia.
In questo romanzo compare, come personaggio minore, Giorgio Doni che, nel primo romanzo di Fontana, è l'anziano procuratore che indagando su un omicidio tra i migranti di via Padova, riscopre il vero senso del suo lavoro, raccogliendo la testimonianza lasciatagli dall'amico.

In questo romanzo scopriamo che è stato un compagno di studi di Colnaghi ed è in procinto di tornare in Lombardia.
Un secondo dialogo, proprio tra Colnaghi e Doni, merita di essere riportato: si può considerare il testamento spirituale di quest'uomo.



La giustizia non è gridare i numeri
«Ma davvero per te si riduce tutto a questo? A prendere il cattivo e condannarlo, e "giustizia è fatta"?». [..] si sentiva accaldato e confuso, tutti gli eventi degli ultimi due mesi si rincorrevano nella sua testa. «Sai, il mio amico Mario - il libraio, ricordi? - mi ha regalato un libro, Diario di un giudice. L'ha scritto un tale Dante Troisi. L'hai letto?».«Non leggo molto ad essere sincero».«Bé, è la storia di un giudice di provincia, negli anni Cinquanta. Ad un certo punto dice: "La mia funzione è controllare l'ago che indica il peso delle persone che cadono nella nostra bilancia e gridare i numeri". L'ho mandato a memoria, da tanto mi ha colpito. Noi dobbiamo evitare in tutti i modi di essere così, capisci Roberto?». [..] 
«Se cominciamo a gridare i numeri, è finita davvero. Forse è quello che la gente vuole da noi, e credo che la stragrande maggioranza dei magistrati, di fondo, la pensi così. Ma allora non vale. Allora non c'è più differenza: dipende tutto da metro che vuoi applicare, dal potere che ci domina in un certo momento», disse pulendosi le mani col tovagliolo.«Un magistrato non dovrebbe mai ridursi a questo. Siamo le uniche persone al mondo che possono rimettere insieme in qualche modo i pezzi di ciò che è andato in frantumi. Una morte, un furto, una qualsiasi violenza: anche la più piccola. E' tutto sotto la nostra responsabilità, Roberto: aiutare le persone, non trattarle come parti nel gioco del processo. Eccezioni sempre, errori mai».
Un finale molto toccante, col sacrificio del protagonista. Che è un sacrificio per noi, per le istituzioni, per la giustizia.
Il
blog dell'autore e la scheda del libro sul sito di Sellerio.
Scaricate qui il primo capitolo.
Il link per ordinare il libro su Ibs e Amazon.

24 maggio 2014

Mario Amato - il magistrato lasciato solo

Piombo contro la giustizia: Mario Amato e i magistrati assassinati dai terroristi
di Achille Melchionda

Mario Amato fu ucciso dai Nar perché, come altri magistrati,  lasciato solo: solo dal CSM, dai vertici della procura di Roma che assegnavano solo a lui fascicoli sul terrorismo nero (di cui faceva parte pure un figlio di un collega, Alibrandi).
Facendolo diventare un bersaglio da parte dei terroristi.
Rifiutò la scorta, per non mettere in pericolo altre persone.
La mattina in cui fu ucciso da Gilberto Cavallini aveva chiesto la macchina blindata perché la sua Simca era dal meccanico. La macchina era però disponibile solo dalle 9 e siccome  non voleva arrivare in ritardo ad un'udienza, prese l'autobus. Dove fu ucciso.
Le foto scattate sul luogo dell'omicidio riportano il particolare delle suole bucate. Era così preso dal lavoro, Mario Amato, che non aveva avuto nemmeno il tempo di comprarsi un paio di scarpe nuove.
Testimonianza di una vita dedicata interamente al lavoro. Un lavoro che l'aveva portato, dal terrorismo di destra alla P2, alla banda della Magliana, a Sindona.
I suoi assassini, figli di papà, il giorno dopo andarono a festeggiare ad ostriche e champagne a Treviso.
Loro di certo, non giravano con le suole bucate.
Mario Amato è il primo eroe suo malgrado di cui parla Antonella Mascali nel suo ultimo saggio “Vi aspettavo”: giornalisti, magistrati, preti, avvocati, poliziotti, sindacalisti, investigatori uccisi dalla mafia e dal terrorismo. Uomini lasciati soli nella loro battaglia, perché un po' anche noi li abbiamo lasciati soli.

23 maggio 2014

L'Europa vale il vostro voto

Mi ricollego al titolo della puntata di ieri sera di Announo: l'Europa, una vera Europa, vale il vostro voto.
Se questa Europa non vi piace, non votando non contribuirete a cambiarla.
E sa vostra idea è che sono meglio gli stati nazionali, pensate a quanto è successo questa settimana con l'accordo Russia Cina sul gas. Un accordo da 400 miliardi, in cui la Russia si è assicurata il mercato cinese e dove l'Europa è rimasta a guardare.
Non siamo indipendenti dal gas russo e nemmeno possiamo aspettare lo shale gas americano (come ha mostrato Report, rischia di diventare pure una bolla).
Gli euroscettici pensano che rimanendo da soli si stia meglio: ma in un mondo globalizzato, nessuno è più da solo.

Potete contribuire anche voi a cambiare le cose, oppure lasciarle così come sono.
Poi non lamentatevi.
Se in Europa arrivano persone incompetenti, pregiudicati o indagati vari. Quelli sono arrivati in Parlamento anche per colpa nostra.
Ieri sera ad Announo Mariano, il ragazzo napoletano che vive come ambulante abusivo, esprimeva il suo disagio sul voto e sulla politica.
A lui ha risposto la ministra Lorenzin, che gli ha ricordato che grazie alla democrazia ha un microfono per dare la sua opinione.

Ma la democrazia non è solo un microfono: è un insieme di leggi e corpi dello stato che regolano la nostra vita, l'istruzione, la sanità, la sicurezza.
Se volete questo tipo di democrazia, questo tipo di Europa, magari potete anche provare a votare qualcosa di diverso.
Come la Lista Tsipras.

Si, lo so: potrebbe essere un voto "poco utile" se non passasse lo sbarramento del 4%. Ma sono stanco di fare un voto utile. Di turarmi il naso: se ci fosse la possibilità di fare voto disgiunto, avrei dato il voto a gente del PD in gamba come Paolo Sinigaglia, ma non potendo ....

Giovanni Falcone (e l'ipocrisia delle istituzioni)

Nino Di Matteo, pm della trattativa Stato-mafia
Per tanti, troppi, i magistrati sono da onorare da morti; sono, siamo stanchi dell'ipocrisia di chi, quando erano in vita Falcone e Borsellino, non esitava a definirli "giudici politicizzati", mentre, dopo che sono morti, si finge di onorarli e si contrappone la loro condotta ai magistrati vivi per affermare che mai avrebbero agito come loro. Ma è un falso storico.

© Franco Zecchin 
 Oggi è una delle tante giornate dell'ipocrisia, quella dove i rappresentanti dello stato consolano la nostra e la loro coscienza con le solite belle parole per l'eroe che si è sacrificato per la patria.
Oggi, come nei passati anniversari di Capaci si dirà che non si deve abbassare la guardia nella lotta alla mafia, che si deve fare luce su tutti i misteri, che non dobbiamo dimenticare il lavoro fatto da Falcone e Borsellino, che pure, nel culmine dell'ipocrisia vengono usati come riferimento per colpire i magistrati di oggi.
Quelli troppo loquaci, che non stanno zitti, che scrivono libri e concedono interviste. E che, soprattutto, fanno processi contro la mafia, contro i politici mafiosi, contro la mafia dei colletti bianchi.
Ci sono persone che si ricordano solo oggi di Falcone, del suo lavoro, e magari citeranno anche una delle sue frasi più famose.
Poi ci sono quelli che si ricordano del pool di Caponnetto, degli attacchi che subirono i magistrati e del loro isolamento, della campagna denigratoria da parte della stampa garantista, le lettere del corvo.
Falcone dovette andar via da Palermo perché non c'era più il clima per lavorare serenamente: la sua morte, disse il collega e amico, iniziò con la mancata nomina a capo dell'ufficio istruzione da parte del CSM. Solo la prima delle sconfitte che questo magistrato subì da vivo. Per essere poi celebrato, ma solo da morto.

Come ora, la mafia fa paura, ma ancora più paura fanno i magistrati che entrano nelle banche, nelle istituzioni, negli studi dei professionisti che con la mafia entrano in contatto. Per prendere voti, per fare affari in comune, per stringere accordi. Per portare avanti una trattativa che ponga fine al muro contro muro tra stato e mafia.

Trattativa che è costata la vita a Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.
Che ha salvato la vita ai politici che la mafia aveva indiviuato come responsabili delle condanne del maxi processo.
Che ha impedito che la lotta alla mafia proseguisse, uscendo dalle aule dei tribunali e diventando una lotta che coinvolge il mondo civile, le scuole. E soprattutto la politica. Che, ancora dal 1992, deve fare i conti al suo interno.
Quella che oggi, per Expo, propone le solite deroghe perché bisogna siglare appalti in fretta.
Quella che oggi contrasta in tutti i modi i magistrati di Palermo, ancora isolati, che portano avanti il processo sulla trattativa.
Quella che oggi ha sì approvato il 416 ter, ma con pene ridotte.
Quella che oggi si rifugia dietro la presunzione di innocenza, il garantismo peloso.
Quella che, come ai tempi di Falcone, punta il dito contro la magistratura indicandoli come giudici politicizzati.

Anche Falcone e Borsellino erano indicati come giudici politizzati


Sempre Di Matteo:
"Tanti autorevoli esponenti politici anche allora criticarono Falcone e Borsellino per la loro partecipazione al dibattito pubblico - ha aggiunto Di Matteo - Borsellino subì anche un procedimento disciplinare per difendersi di fronte al Csm per la denuncia di smantellamento del pool antimafia che aveva fatto. Adesso questo ambienti che prima attaccavano Falcone e Borsellino hanno attaccato altri magistrati dicendo che Falcone e Borsellino non lo avrebbero mai fatto: è un falso storico. Non possiamo e non dobbiamo parlare di processi in corso, ma possiamo e dobbiamo partecipare alla vita pubblica".
"Il rapporto con i media deve essere quello di ripristinare la verità di fronte a falsi che, ripetuti, diventano quasi realtà, per i lettori - ha chiosato Di Matteo - come quando si dice che la separazione delle carriere tra Pm e giudici è necessaria perché i giudici sono appiattiti di fronte a richieste del pm, ma è un falso".
"Da un punto di vista militare la mafia è diversa da quella del 1992; ma registriamo l'assenza di una legge che punisca l'auto riciclaggio, un sistema odierno di prescrizione molto breve che vanifica il lavoro del processo penale, una legge sulla corruzione come quella dell'anno scorso che pare quasi una presa in giro".
"Tutti questi fattori - ha aggiunto il magistrato - rendono difficile l'individuazione e la repressione di tutte quelle condotte penalmente rilevanti, come la turbativa d'asta, la corruzione o la concussione, attraverso le quali la mafia penetra nella vita sociale".

"Ci sembra di trovarci - ha concluso Di Matteo - di fronte a un sistema a due velocità: giustamente efficace quando si tratta di procedere nei confronti dell'estorsore o del trafficante, quasi timido nei confronti del politico colluso con la mafia".

 "Prendiamo atto della sentenza della corte costituzionale sulla distruzione delle intercettazioni che hanno riguardato Mancino. Siamo fieri che quelle conversazioni sono rimaste segrete: non è uscita una riga in proposito, ma quello che poi è avvenuto in termini di attacchi alla Procura di Palermo è sotto gli occhi di tutti".

"Certo, prendo atto, e qui faccio una constatazione di fondo - ha concluso Di Matteo - che altre conversazioni dello stesso Capo dello Stato e di quello che lo aveva preceduto, ugualmente irrilevanti dal punto di vista penale, erano invece state da altre Procure trascritte, depositate a disposizione delle parti, ed erano state pubblicate dai giornali. In quei casi non è stato sollevato alcun conflitto di attribuzioni - osserva Di Matteo - nel nostro caso, invece si".
Giovanni Falcone è uno dei protagonisti del libro di Antonella Mascali "Vi aspettavo". Un eroe che non avrebbe voluto esserlo.

Il secondo tempo: il  il docu-film integrale di Pierfrancesco Li Donni che racconta i 57 giorni tra la strage di Capaci e quella di via D'Amelio