07 maggio 2013

Il cavaliere e la morte di Leonardo Sciascia

Incipit:
Quando alzava gli occhi dalle carte, e meglio quando appoggiava la testa sull'orlo dell'alto e duro schienale, la vedeva nitida, in ogni particolare, in ogni segno, quasi il suo sguardo acquistasse un che di sottile e puntuto e il disegno rinascesse con la stessa precisione e meticolosità con cui, nell'anno 1513, Albrecht Durer lo aveva inciso.

Costruito come fosse un giallo, Il cavaliere e la morte è l'ennesimo racconto di Sciascia di si parla del potere e del suo lato criminale.
Racconto che diventa apologo negativo di un malato che è il nostro sistema paese e che Sciascia si sentiva in dovere di raccontare "Il mio ruolo" diceva in una intervista riportata in terza di copertina "è di dire le cose che noto o che scopro nella realtà: due e due fanno quattro e, identificate certe premesse, il risultato sarà inevitabile".
E ancora "Nessun dono profetico: basta, ripeto, conoscere e osservare, e avere il coraggio di opporsi al conformismo della verità ufficiale".

Negli anni in cui veniva scritto questo racconto poteva essere la verità sugli scandali o scandaletti della prima Repubblica, sul terrorismo nero o rosso, sull’Italia settima potenza mondiale.
Su Andreotti padre della repubblica avendone attraversato quasi indenne tutte le stagioni.
Arrivando al giorno d’oggi non avrebbe esitato nel criticare questa classe dirigente sempre più maleducata, ignorate, senza alcun senso dello Stato, senza alcun rispetto delle istituzioni, preoccupati dall’occupare le poltrone e non a governare. Politici che si nascondono dietro le immunità di Stato, considerando il voto un assegno in bianco, senza volere o sapere rispettare le istituzioni.

Protagonista di questo breve racconto ambientato nel 1989 (l’anno del muro di Berlino) è il vice, un funzionario di polizia che non ha nome e che è mortalmente malato (come malato era il professor Franzò, ne Una storia semplice, a testimonianza di una malattia più profonda di questo paese dove gli eroi hanno un volto cupo e quasi rassegnato).
Assieme al suo capo, devono indagare sulla morte di un avvocato famoso, Sandoz, trovato dopo dopo una cena in cui si è scambiato un bigliettino col potente presidente delle Industrie Riunite Aurispa.
Durante la cena aveva scritto all'avvocato Sandoz "ti ucciderò", ricevendone in cambio un altro bigliettino in risposta.
Un gioco, spiega il presidente, con un certo fastidio, ai due poliziotti che si sono permessi di andarlo a disturbare la mattina presto, come si addice alla polizia quando deve cogliere nel sonno il sospettato.
Lo zelo del capo però impedisce al protagonista di approfondire ufficialmente la pista che porta all'importante industriale, autore, assieme all'avvocato, di certi intrallazzi che è bene non vengano resi noti.

Ma ecco l'evento che mette a posto la forma delle cose: l'avvocato avrebbe ricevuto delle minacce telefoniche da un certo gruppo autonominato "i figli dell'89".

Chi sono queste persone? A che '89 si riferiscono? All’anno in corso, l’anno del crollo del comunismo, del muro di Berlino? O forse alla rivoluzione francese del 1789?
Il capo si getta subito su questa pista, il gruppo eversivo dietro la morte dell’avvocato: pista che non convince il vice:

ci troviamo di fronte ai un problema, a un dilemma: i figli dell’89 sono stati creati per uccidere Sandoz o Sandoz è stato ucciso per creare i figli dell’89?”

L'indagine parallela e ufficiosa del vice, lo porta ad incontrare altri commensali della cena, come la cinquantenne oggetto dello scherzo del presidente e dell’avvocato in quella cena.
E, poi, una bella ragazza “bella fino all’insipida perfezione”, seduta a fianco del presidente.

Se deve disubbidire al capo, tanto vale andare fino in fondo: così il vice si decide a sentire l'amico Rieti (una persona che sa tante cose, forse con un passato nei servizi e da cui dovrebbe stare lontano come lo aveva ammonito il capo): anche lui è molto scettico di questo nuovo gruppo eversivo, così lo imbocca su una strada ispida e pericolosa, ritenendo che il gruppo terroristico sia stato creato ad arte per distogliere l'attenzione dagli intrallazzi di Sardoz assieme al presidente, traffici in armi e veleni.
Assieme si ritrovano a discutere del volto del potere, che in Italia assume le forme di potere criminale:

«Nella nostra infanzia abbiamo sentito, più che propriamente conosciuto, un potere che si può dire di integrale criminalità, un potere che si può anche dire , paradossalmente, sano, , di buona salute: sempre, si capisce, nel senso del crimine e confrontato a quello schizofrenico di oggi. La criminalità  di quel potere si affermava soprattutto nel non ammetterne altra al di fuori della propria , vantata ed esteticamente decorata ...
Inutile dire che preferisco la schizofrenia alla buona salute; e credo anche lei. Ma di questa schizofrenia bisogna tener conto, per spiegarci certe cose altrimenti inspiegabili. Come pure bisogna tener conto della stupidità, della pura stupidità, che a volte vi si insinua e prevale .. C'è un potere visibile, nominabile, enumerabile; e ce n'è un altro, non enumerabile, senza nome, senza nomi, che nuota sott'acqua. Quello visibile combatte quello sott'acqua, e specialmente nei momenti in cui si permette di affiorare gagliardamente, e cioè violentemente e sanguinosamente: ma il fatto è che ne ha bisogno .. Spero che lei mi perdoni questa filosofia spicciola: ma non ne ho altra, riguardo al potere».
«Si può sospettare, dunque, che esista una segreta carta costituzionale che al primo articolo reciti: la sicurezza del potere si fonda sull'insicurezza dei cittadini». «Di tutti i cittadini, in effetti: anche di quelli che, spargendo insicurezza, si credono sicuri .. E questa è la stupidità di cui dicevo».
pagina 60

Con chi parlare di questa pista? Mentre il capo prosegue l'indagine ufficiale sui "ragazzi dell'89", il vice si confida col Grande Giornalista, uno da cui "settimanalmente i moralisti di nessuna morale si abbeveravano", sperando che dei suoi dubbi se ne parli sulla stampa.

Il Grande Giornalista aveva ora un'aria diffidente, perplessa. Disse: «Mi aspettavo che lei non rispondesse alla mia domanda, e lei invece ha risposto; che lei negasse il mio sospetto, e lei invece vi ha aggiunto il suo. Ma che succede?».
La sua mente, gli si leggeva in faccia, era tutto un meccanismo di scarti, correzioni, ritorni ed inceppi.
 
«Ma che succede?», angosciosamente.
«Nulla, direi».
 
E ad offenderlo: «Ha mai sentito parlare di amore della verità?».
«Vagamente». Lo disse con ironia sdegnosa [..]
Il vice rincalzò con un «già, già». E aggiunse: «Domani, comunque, spero di poter leggere un suo articolo con tutti i sospetti e i dubbi che io, per opinione personale, le ho confermato».
Il Grande Giornalista era rosso di collera.
Disse: «Lei sa bene che non lo scriverò».
«E perché dovrei saperlo? Ho ancora tanta fiducia nel genere umano».
pagina 67

La malattia prende il sopravvento sul vice: sconfortato e stanco, riguarda il dipinto di Durer "Il cavaliere, la morte, il diavolo" che sembra rivelargli la stanchezza del diavolo stesso e pensa:
« L’aveva sempre un po’ inquietato l’aspetto stanco della morte, quasi volesse dire che stancamente, lentamente, arrivava quando ormai della vita si era stanchi. Stanca la morte, stanco il suo cavallo: altro che il cavallo del Trionfo della morte e di Guernica. E la morte, nonostante i minacciosi orpelli delle serpi e della clessidra, era espressiva più di mendicità che di trionfo. «La morte si sconta vivendo». Mendicante, la si mendica. In quanto al diavolo, stanco anche lui, era troppo orribilmente diavolo per essere credibile. […] Ma il Diavolo era talmente stanco da lasciar tutto agli uomini, che sapevano fare meglio di lui. E il Cavaliere […], dentro la sua corazza forse altro Durer non aveva messo che la vera morte, il vero diavolo: ed era la vita che si credeva in sé sicura: per quell’armatura, per quelle armi. »
Pagina 70

Inizia come un romanzo giallo, forse anche scontato (come ammette lo stesso autore), per diventare racconto apologo nel finale, quando vediamo il protagonista, l’eroe senza nome, riflettere che ne sarà dei bambini che oggi giocano nel parco, cosa saranno loro tra dieci, vent’anni, in questo paese senza memoria?
Un mondo senza gioia e fantasia, un mondo con computer, televisione e la macchina da usare per spostarsi da casa a scuola. Niente tabelline, niente poesie a memoria (perché l’esercizio della memoria verrà abolito), basta giochi all’aperto. Una generazione di nuovi mostri.

Non abbiamo più bisogno del diavolo. Il diavolo l’abbiamo inventato noi, “perché l’acqua santa sia santa.”

La scheda sul sido di Adelphi
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1 commento:

Corrado ha detto...

Bella recensione che traccia per coloro che non hanno ancora letto questo romanzo breve, senza anticiparne il finale, il discorso "politico" e universale di uno dei più grandi scrittori del nostro '900.
"Il cavaliere e la morte", tra gli ultimi romanzi di Sciascia, fornisce al lettore quella parte di testamento letterario sul suo tormento chiamato "Italia", la sua "nazione Italia", tormento che i brani sopra riportati sapientemente riassumono. Complimenti!