18 ottobre 2012

Armi, un affare di Stato - di Duccio Facchini, Michele Sasso e Francesco Vignarca

« Perché vedete... le guerre non le fanno solo i fabbricanti d'armi e i commessi viaggiatori che le vendono. Ma anche le persone come voi, le famiglie come la vostra che vogliono vogliono vogliono e non si accontentano mai! Le ville, le macchine, le moto, le feste, il cavallo, gli anellini, i braccialetti, le pellicce e tutti i cazzi che ve se fregano! ...Costano molto, e per procurarsele qualcuno bisogna depredare!  »
Si chiudeva con queste parole il film "Finchè c'è guerra c'è speranza", con Alberto Sordi: con queste frasi accusava di ipocrisia la sua famiglia che proprio coi ricchi guadagni delle armi viveva nel lusso, scandalizzata dalle immagini di distruzione e di morte causate dalle sue armi in Africa.

Oggi, quegli ipocriti che da una parte si indignano per il sangue dei civili e dall'altra continuano ad alimentarlo, sono i governanti europei e le grandi imprese nel settore delle armi (un mercato chiuso, anzi nemmeno un mercato poiché garantito dalle commesse degli Stati, ovvero tenuto in piedi con le nostre tasse). Altro che nobel per la pace.
Le armi alimentano le guerre, alimentano la corruzione, causano violenza, deprazione delle risorse sottratte alla collettività per finire nelle mani di poche persone.

Il bel saggio dei tre giornalisti Facchini, Sasso e Vignarca racconta chi sta dietro il business internazionale delle armi: un business miliardario  (1700 miliardi, le spese militari ogni anno) che non conosce crisi. Persino nella Grecia, ad un passo dal default, il budget per le spese militari è cresciuto del 18% nel 2011.
L'Italia, che nella costituzione ripudia la guerra, è il quinto produttore modniale di armi: la sua holding Finmeccanica, il fiore all'occhiello del made in Italy, vende armi in tutto il mondo, anche ai paese che non rispettano i diritti civili, anche alle dittature.
Dalla Libia di Gheddafi (l'ex socio d'affari a cui dopo le rivolte della primavera araba abbiamo fatto ala guerra), al governo di Panama, cui abbiamo venduto delle Fregate col sospetto di aver pagato delle tangenti. Così come per la vendita di elicotteri della Agusta Westland all'India.

Perchè il settore degli armamenti non solo è a tenuta stagna da qualsiasi problema di coscienza sull'uso che di quelle armi se ne farà. Ma è anche un settore molto poco trasparente (il Parlamento spesso ha poco controllo sui budget, sui costi effettivi delle commesse e dei progetti); un settore che ha scarse ricadute in termini di occupazione (si sono persi nel mondo centinaia di migliaia di posti, mentre i fatturati di queste imprese erano in aumento), e di ritorno economico per i paesi (vedi il caso sull'F35).

Oltre al caso Finmeccanica, gli autori affrontano il tema della politica: più che indirizzare e controllare come vengono usati i soldi pubblici, si è messa letetralmente a disposizione per queste imprese, a fare promozione come Berlusconi a Panama o La Russa alla fiera di Abu Dhabi, come se le armi fossero un prodotto qualsiasi del nostro made in Italy.

"Il rapporto tra il ceto politico italiano e l'azienda che nel nostro paese è leader nella produzione di armamenti - il gruppo Finmeccanica - è perfettamente riassunto nella dichiarazione di un illustre esponente e fino a non molto tempo fa capo del governo, l'onorevole Silvio Berlusconi.

Nell'ottobre del 2004 Guarguaglini si era rivolto con que- ste parole al Cavaliere, ospite in qualità di presidente del Consiglio alla presentazione dell'aereo progettato e realiz- zato da Aermacchi del gruppo Finmeccanica: «Chiediamo al governo che aiuti Aermacchi e Alenia a rendere l'M-346 l'aereo Eurotrainer», cioè l'addestratore di riferimento per i piloti dei caccia militari di ultima generazione. Berlusconi aveva assunto volentieri la parte del supporter: «Sarò il vostro commesso viaggiatore nel mondo, questo governo è nato e fatto per le cose concrete, come quella di supportare la vendita di questo modello agli altri governi»".
Come altre parti del nostro stato, anche il settore della difesa si sta orientando verso un'ottica di mercato, che è quella di massimizzare i profitti, a qualunque costo.
Questo spiega il perché sempre Finmeccanica (che è passata da 77000 a 70000 occupati in due anni), nella gestione Guarguaglini, abbia potenziato il settore militare a discapito di quello civile.

Nella seconda parte si tocca il tema della proliferazione delle armi leggere, non regolamentata dalla, comunque blanda, legge 185 del 1990. Sono le pistole Beretta o i fucili (non mitragliatori) che girano il mondo, per finire poi ai rivoltosi di tutte le varie guerre che insanguinano il mondo.
Tra i casi citati, quello più ecclatante della Beretta Connection: le armi della Polizia finite ai rivoltosi in Iraq e usate contro le forze di occupazione americane.
Un capitolo è dedicato al caccia F35; ai grandi trafficandi di armi nel mondo (lord of war, come Viktor Bout), che spesso hanno anche fornito supporto in termini di logistica e di trasporto alle truppe regolari.

Infine, l'ultima parte, gli effetti non collaterali delle armi.
Non dobbiamo dimenticarci quale è l'utilizzo delle armi.
Ci sono molti ottimi motivi per ridurre gli investimenti in questo settore:
- tutte le guerre fatte e tutti gli investimenti in sicurezza e armamenti non hanno reso più sicuro il mondo
- la vendita di armi alimenta i conflitti, la sete di potere dei signori della guerra. Le guerre causano la distruzione di risorse.
- questo comparto non crea più occupazione e, negli anni, ha di fatto solo aumentato il debito
- è un settore in cui la corruzione è un dato di fatto, per chiudere gli affari
- i soldi dati alla difesa, specie in tempi di crisi, sono soldi tolti alla sanità, all'istruzione, e in generale alla collettività per consegnarli a pochi privati

Spiegano gli autori che:

"Come ad un padre di famiglia piuttosto disattento, lo Stato ha preferito spendere 135000 euro al giorno per la gestione della portaerei Garibaldi, messa a disposizione dei quattro cacciabombardieri Harrier per la missione militare in Libia nel 2011 e mai utilizzata.
Che cosa si potrebbe fare di utile in Italia col budget del comparto della Difesa (23 miliardi di euro nel 2012)? In questi tempi di crisi basta guardarsi intorno per scoprie che non c'è che l'imbarazzo della scelta. Si potrebbero per esempio reperire le risorse necessarie per assicurare una forma di tutela agli «esodati», cioè i lavoratori rimasti senza stipendio, senza ammortizzatori sociali e senza pensione a causa delle norme sula previdenza introdotte dal governo Monti. Si potrebbero alleggerire i tagli agli enti locali, che incideranno sulla disponibilità e sualla qualità dei servizi al cittadino "
pagina 217

Queste le ultime righe del libro, che spero facciano riflettere qualche testa a Roma:
"I modelli economici teorici rivelano che spese così elevate per eserciti e armamenti provocano una contrazione del PIL di 1,8%, che corrispondono per gli USA a circa 250 miliardi di dollari, oppure in altri termini, alla perdita di due milioni di posti di lavoro. Questi dati dimostrano che gli «affari di Stato» (e dei pochi altri soggetti che si spartiscono il mercato delle spese militari) non sono certo vantaggiosi per le popolazioni e per l'economia mondiale, già martoriata da altre decisioni scellerate in ambito finanziario" [lo studio fu realizzato anni fa da Global insight, leader nel campo dei modelli economici, a cui fu chiesto di stimare l'impatto per gli USA di un aumento annuo delle spese militari  pari all'1% del PIL].
La scheda del libro su Chiarelettere.
Il link per ordinare il libro su ibs.

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