29 aprile 2012

Uscire dalla crisi è possibile, di Aldo Giannuli

Riformare la finanza, promuovere l'eguaglianza, ripensare la globalizzazione: per un nuovo primato della politica e dell'economia reale.


Quali sono le cause della crisi finanziaria che stiamo vivendo, come mai questa volta potrebbe essere una crisi più pesante delle altre?
E quali le ricette per uscire dalla crisi?

Queste due domande sono l'ossatura stessa del libro (naturale continuazione de “2012: La grande crisi”, uscito l'anno scorso): a queste Aldo Giannuli, storico nonchè consulente di varie commissioni di inchiesta parlamentari su stragi ed eversione, ha dato una risposta chiara ed esaustiva.
Risposte che vanno contro le ricette economiche propinate oggi dai tecnici in Italia e in Europa e che ci constringono a rivedere tutta l'architettura finanziaria su cui abbiamo costruito l'economia mondiale nell'epoca della globalizzazione.

Questa crisi, signori, è la naturale conseguenza delle politiche neoliberiste che da trent'anni vediamo riproposte in tutte le salse dai governi occidentali (non tutti forse e non nella stessa maniera).
Dagli anni 80, infatti, con l'elezione di Ronald Reagan e Margaret Tatcher negli Usa e in Inghilterra abbiamo iniziato a vedere leggi che mettevano da parte lo Stato come ente regolatore dell'industria e della finanza (e dunque l'ente col compito di fare redistribuzione del reddito).
Meno stato, più mercato … il mercato sa regolarsi da solo … questi i mantra dei neoliberisti di tutto il mondo: economisti, lobbisti, giornalisti che hanno sposato questo dogma infallibile: al mercato, che doveva regolare tutto, dalle commodity (i beni di consumo) ai servizi, al petrolio, alla finanza, non si può mentire.
E allora via i “lacci e lacciuoli” che bloccano il denaro dentro i confini di uno stato, via alle leggi che rendono più semplici le delocalizzazioni. Via alle leggi che impediscono alle banche di fare attività speculativa (il Glass Stegall Act). In pochi decenni si è passati da paesi ad economia industriale, a paesi basati su una economia di servizio, dove l'industria veniva piano piano svuotata, e con essa i diritti e gli stipendi delle persone che ci lavoravano dentro.
Perchè è il mercato che lo chiede: nello stesso periodo se da un lato si gonfiava di miliardi l'economia della finanza, l'economia reale veniva mortificata, il ceto medio iniziava il suo declino e si assisteva allo spostamento della ricchezza verso “riccolandia”.

Per questo la crisi del 2008, e la successiva crisi di adesso, sono ancora in essere: sono qualcosa di diverso da quelle degli anni passati (la depressione del 1929, quella del 1973-74, quella del 1992-93). Oggi, ci siamo giocati l'economia industriale, la produzione, la competitività e contemporaneamente, è aumentato il debito dei nostri paesi e se anche dovessimo arrivare alla tanto attesa ripresina, questa servirebbe a malapena a ripagare gli interessi su di questo.
L'errore che è stato commesso, per uscire da questa crisi, è stato quello di affrontarla con l'iniezione di liquidità (soldi pubblici), nel mondo delle banche, dunque nel mondo della finanza. Allo stesso modo come nel 2008, si è lasciata fallire Lehman Brothers, ma si sono salvate con soldi pubblici le altre banche americane che stavano sull'orlo del crac.

Questi soldi non hanno fatto altro che tamponare solo per qualche momento il problema: le banche si sono ricapitalizzate a spese nostre, hanno comprato altri titoli di stato (sfruttando il momento favorevole, per gli alti interessi che questi garantivano), ma non hanno dato alcun contributo al rilancio dell'economia.
Alla stessa maniera per cui i grandi manager di Wall Street, dopo la grande paura del 2008 (per la crisi dei mutui subprime, trasformati in titoli derivati con cui hanno intossicato i bilanci di mezzo mondo), sono oggi ritornati agli antichi splendori.
Nessuna regola stringente alla finanza, all'utilizzo delle stock options, ai superstipendi dei manager, alla possibilità di fare speculazioni contro stati sovrani a colpi di cd swap, di HTF (le transazioni veloci), di vendite allo scoperto. E che dire delle agenzie di rating? Le tre sorelle americane che danno la tripla A agli USA, ma mazzuolano i paesi europei, che pure hanno una situazione debitoria migliore di quella americana? Le stesse agenzie che davano per buoni i titoli Parlamat e Lehmann anche prima del crac …

L'ipercapitalismo finanziario, che ha contagiato mercati, borse, banche, fondi di investimento, ha garantito l'eldorado per pochi (ma non pochissimi) fortunati: ma è una ricchezza che non è ritornata in ricircolo nell'economia ma è anzi spesso andata a sottrarsi al fisco (secondo il mantra neoliberista, i ricchi devono pagare meno tasse, poiché spendono per beni di lusso ...).
Il denaro solo per fare denaro. Tanto, alla peggio si può sempre stamparne di altro, non essendoci più la necessità di un suo corrispettivo reale.
Nessuno, tra i neoliberisti, spiega come mai questo dogma non abbia saputo prevedere la crisi del 2008, come mai gli stessi liberisti oggi accorrono al capezzale dello stato per salvarsi, lasciando per strada lavoratori senza lavoro (perchè non competitivi con i corrispetivi cinesi o indiani). 
L'economia non è quel mondo perfetto, il mercato che non si può ingannare: non è sufficiente spostare i problemi sul domani (e continuare con l'indebitamento delle imprese per spremere il fatturato, delle banche per continuare a fare mutui). È sufficiente un terremoto (Fukushima), una rivolta (la primavera araba, innescata proprio dall'aumento del prezzo delle materie prime), per sconvolgere questi equilibri.

Giannuli affronta la questione della crisi da tutte le sue angolazioni: dal lato economico ma anche da quello sociale e politico.
In situazioni come quella attuale le nazioni che soffrono per il proprio debito stanno perdendo, in nome della ricetta dell'austerità (ricetta dei dottori che sono poi in parte responsabili della stessa situazione), a perdere un pezzo della loro sovranità.
La Grecia, ma poi anche il Portogallo, la Spagna e l'Italia (ma in un futuro anche la Francia) sono costrette a rivedere la politica di spesa, a tagliare la spesa sociale, a spostare capitali che sarebbero preziosi per l'economia vera, per l'università, per la ricerca, in quel pozzo senza fine che è il ripagamento del debito.
È estremamente chiaro, l'autore: tutti gli stati europei sono in default tecnico. Se non lo siamo, è perché, per il meccanismo delle scatole cinesi, non conviene a nessuno che la Grecia fallisca di botto (e lo stesso vale per la Spagna e l'Italia); così come ai cinesi non conviene reclamare il debito americano, ma si accontentano di prenderne gli interessi.
Ma fino a quando possiamo andare avanti? Se si esclude il botto, Giannuli immagina una situazione di “cronicizzazione del malessere”, che porterà alla crescita (ormai sotto gli occhi di tutti) dei movimenti di protesta. Gli indignados, a sinistra, ma soprattutto i movimenti dell'estrema destra xenofoba (e la situazione della Germania negli anni '20 dovrebbe dirci qualcosa).

E l'Europa? Stiamo pagando l'errore di una moneta unica senza però una unità politica ed economica: avremmo dovuto sfruttare questa situazione di emergenza per portare avanti riforme in tal senso, anziché parlare di uscire dall'euro (pensiamo veramente che la Lira avrebbe più credibilità?).
Invece ogni paese ha pensato a sé: anche a livello mondiale passeremo dal predominio dell'impero americano, ad un mondo diviso in zone di influenza dalle nuove potenze emergenti.

Che fare allora? Come uscire dalla crisi.
Giannuli ricorda la frase di Mao“la rivoluzione non è un pranzo di gala, non è una festa letteraria, non è un disegno o un ricamo, non si può fare con tanta eleganza, con tanta serenità e delicatezza, con tanta grazia e cortesia, la rivoluzione è un atto di violenza”.

La lotta politica e sociale che dobbiamo mettere in atto, noi italiani e noi europei, non sarà un pranzo di gala, ma sarà una lotta che richiederà asprezze assai acute.
In ballo c'è il futuro delle nazioni così come oggi le immaginiamo: infatti dobbiamo decidere se vogliamo salvare il mondo della finanza così com'è, o gli stati.

Solo l'intervento dello stato, anzi degli stati, può arginare questa crisi: basta con le iniezioni di liquidità, mettere le briglie alla finanza, uno stop all'uso dei derivati e delle HFT (High frequency trading) e delle transazioni che avvengono al di fuori dei mercati (senza il passaggio per le clearing house). Fine dell'oligopolio dei grossi gruppi finanziari (le banche che sono “too big too fail”, ma che in realtà sono come i dinosauri “too big to live”); ritornare al Glass Steagall Act.
Aumentare le pene per i reati finanziari e introdurre il concetto di terrorismo finanziario (non è solo Al Queda che mette in pericolo le democrazie occidentali).
Introdurre meccanismi di compensazione tra le imprese che limitino il flusso di denaro tra queste (perchè il denaro ha un costo), e anche tra paese europeo e paese europeo (per esempio tra Italia e Francia, che possegono titoli l'uno dell'altro).
La crisi, si dice, è globale: è allora globale deve essere la risposta dee paesi occidentali che dovranno rinegoziare il loro debito in parte posseduto dalle nazioni emergenti (Cina, India, Brasile, ..), in cambio di alcuni pezzi di potere, concedendo spazio negli organi internazionali oggi presieduti da USA, Europa e Giappone (FMI, la Banca Mondiale, l'Onu).

La tassazione.
Se fino ad oggi si è permesso ai super ricchi di essere sempre più ricchi e pagare meno tasse, da domani dobbiamo invertire la tendenza (come d'altronde stabilisce la Costituzione).
Basta con i paradisi fiscali, e con il dumping fiscale all'interno degli stessi paesi della Ue: nell'epoca della globalizzazione, pure la legislazione deve essere globale. I soldi devono girare liberamente tra stato e stato? Sì, ma devono avere la bandierina sopra che dica dove vanno e dove vengono. Basta col segreto fiscale, visto che questo non ha nulla a che vedere con privacy o cosa, ma solo con evasione o peggio. E visto che questi soldi non sono investiti nell'economia vera.
Sì ad una tobin tax, come pure ad una patrimoniale che individui bene cosa tassare (quali patrimoni) e a che livello: “o si restringe la libertà dei capitalio si globalizza il fisco”.

L'economia reale.
Chi lo ha detto che non conviene più produrre in Occidente (e in Italia)? Le stesse persone che ora non hanno previsto la crisi e che ora chiedono aiuto allo stato cioè a noi. Perché credergli dunque?
A tendere, per l'aumento dei costi del petrolio e per la fine del gioco dei cambi (con la moneta cinese) non converrà più produrre in Cina per esportare qui da noi.
Dobbiamo riportare la produzione da noi, siccome le delocalizzazioni hanno generato solo disoccupazione, bassi salari, precariato, la perdita delle conquiste salariali e dei diritti dei lavoratori, e ora anche una situazione di tensione sociale che non si può risolvere con la forza.
Ad incidere sui costi di produzione, tra l'altro non sono solo gli stipendi di chi lavora, ma anche quelli ben più pesanti del management.
Quanto pesa un Marchionne, o un Ligresti, di fronte ad un Cipputi?
Anziché chiedere il pareggio di bilancio ai paesi membri, la Ue dovrebbe imporre il pareggio della bilancia commerciale e spingere, proprio in questi momenti, verso un intervento statale in economia (che poi è quello che Monti e C. non vogliono fare).
Lo stato deve tornare a farsi imprenditore per decidere quale politica industriale deve andare avanti nel paese, con quali regole, e con quali costi: un'azienda statale dovrebbe raccogliere i soldi della BCE per girarli poi all'economia reale (senza passare più dalle banche).
Il modello che Giannuli ha in mente per il nostro futuro è quello dell'impresa sociale (l'esatto contrario dell'impresa globalizzata, che sta in piedi solo grazie agli aiuti di Stato di Cina , India, Serbia ..).Ovvero passare da dipendenti precari ad autoimprenditori di imprese in network che operano per compensazione (il vecchio baratto), con l'autogestione dei dipendenti alla vita delle stesse (come in Germania con i sindacati).
Lo Stato italiano potrebbe infine concedere prestiti e una fiscalità agevolata a queste nuove forme societarie.

La fine della tecnocrazia.

“..Abbiamo cercato di aggiungere anche quella degli aspetti sociali e politici di questa che, in ogni senso, è la primi crisi globale della Storia. E proprio la mancanza di consapevolezza di questo inestricabile intreccio tra aspetti economico-finanziari, sociali, politici e militari è uno dei fattori del suo aggravamento.
Quello che non funziona, abbiamo detto, non è l'eccesso di azzardo di qualcuno o il semplice problema della sottrazione dei grandi capitali alla sovranità fiscale degli stati, ma l'architettura complessiva di un sistema che subordina la politica all'economia, l'economia alla finanza e la finanza ad un pugno di speculatori che esercitano una «dittatura non politica» sull'intero sistema. Sin qui la storia ci aveva offerto modelli diversi: dittature «commissarie» e dittature «sovrane», del proletariato e della borghesia, militari e civili, personali e dittatoriali, ma pur sempre legate ad un esercizio discrezionale o incontrollato del potere statale. [..]
La globalizzazione neoliberista, come si è detto,ha prodotto una crisi sul concetto stesso di sovranità nazionale, trasferendo altrove la sede di gran parte del suo potere decisionale. Questo è stato particolarmente vero nei regimi democratici dell'Occidente, dove le forme della democrazia (carattere elettivo degli organi di potere, libertà di stampa, di sciopero, di opinione, pluralismo politico) sono state pienamente conservate, ma sempre più svuotate nel senso, al punto che autorevoli politologi e sociologi si sono spinti a parlare di «post-democrazia».
Per un'ironia della Storia, l'esportazione della democrazia si è risolta nell'importazione di nuove forme di autoritarismo. Il potere discrezionale e incontrollato non è esercitato direttamente attraverso lo Stato, ma attraverso una fitta serie di trattati e convenzioni che trasferiscono potere statale ad apparati tecnocratici formati al di fuori di qualsiasi prassi democratica ()WTO, FMI, Banca Mondiale, BCE e banche centrali in generale, NATO, ecc.) correlati alle massime istituzioni finanziarie, attraverso lo stretto controllo proprietario della stragrande maggioranza dei mezzi di informazione, attraverso il condizionamento delle leadership politiche e anche attraverso una egemonia culturale garantita da un soverchiante dispiegamento di mezzi finanziari.”

Pagina 286-287 


Giannuli immagina un nuovo FMI staccato dagli Usa (alimentato da una tassa sulle transazioni finanziarie) e una nuova Bretton Woods che permetta il passaggio dal dollaro ad una nuova moneta internazionale per gli scambi: qui si dovrebbe decidere della moratoria sui debiti (che comunque nessuno è in gradi di pagare) e ripensare la globalizzazione, come esportazione di diritti sociali e pari condizioni fiscali.

Sarà dura, ma dovremo dire basta a questo regime tecnocratico dove una massa di non eletti nelle banche, negli organi finanziari, decide del futuro delle democrazie.
Anche se questo non sarà facile, ci vorrà tempo: questa liberazione avverrà solo dopo una fase conflittuale, viste le due opposte visioni del mondo e della vita economica:
Se uno degli attori è convinto che l'unico scopo dell vita economica sia l'arricchimento individuale e che non ha senso peseguire fini sociali e, dall'altra parte, c'è chi invece pensa che il fine sia la soddisfazione dei bisogni sociali e l'eventuale arricchimento individuale deve essere subordinato a questo, non c'è mediazione possibile. C'è solo un conflitto da decidersi sul piano dei rapporti di forza, e chi vincerà imporrà le sue regole sull'altro.
I neoliberisti hanno vinto la loro battaglia grazie alla «guerra di classe vinta dai ricchi» (Buffett), essi sono stati l' «armata culturale» di quella «dittatura non politica» di cui abbiamo detto. Oggi con la crisi, quella «guerra di classe» si riapre e, con essa, anche lo scontro virtuale.”

Pagina 300-301


Bisogna scegliere: o i paesi o la finanza. Tutte e due le cose non si possono salvare: come cittadini non possiamo più accettare le parole “non c'è alternativa a questo sistema”.

L'indice del libro, che trovate qui.

Parte prima. Perchè non siamo usciti dalla crisi.
1)Breve dizionario della crisi, p.25
2)Ascesa e declino del neoliberismo, p.53
3)La crisi che non passa, p.80
4)Il grande gioco, p.119

Parte seconda. Uscire dalla crisi.

5)Produzione, disuguaglianze, lavoro, p.151

6)Quale finanza? p.175
7)Il nodo del debito pubblico, p.197
8)Il problema fiscale, p.231
9)L'economia reale, p.261 

Il blog dell'autore i cui post hanno contribuito a questo libro.
La scheda del libro sul sito dell'editore Ponte delle Grazie.
Il link per ordinare il libro su ibs.
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