01 novembre 2010

Report il mare nero



Il disastro ambientale della Louisiana ha raccontato al mondo intero quanto il nostro ambiente sia vulnerabile di fronte allo strapotere delle multinazionali, come la British Petroleum: come il cittadino che si ritrova le proprie spiagge, le coste, le paludi inquinate per anni, che si ritrova a dover cessare le proprie attività commerciali, vendere la casa, perchè un'impresa senza scrupoli si è comprata il silenzio e la connivenza degli enti statali di controllo.

Lo “scaricabarile” che è avvenuto sulle responsabilità, le rassicurazioni da parte dei vertici della BP, i risarcimenti che non ci sono stati per tutti, il voler minimizzare il disastro (come le ruspe che rivoltano la sabbia impregnata di petrolio) dimostrano una cosa sola: che non ci si può fidare sempre di chi ci governa e di quanti, con la scusa di portare soldi e lavoro, pretendono di venire a comprarsi un pezzo del nostro territorio. Deve essere Report che ci mostra cosa succede in Louisiana oggi e cosa c'è nel fondo dei nostri mari.

Ci sono voluti 87 giorni per tappare la falla della piattaforma della BP (e anche grazie ai media che sono stati col fiato sul collo): ma alla fine il 30% del petrolio risersato non è stato recuperato. Che fine ha fatto?

Per capire i rischi che si corrono col petrolio nei mari (per le trivellazioni, per le petroliere) non si deve andare lontano: basta andare nel mar Ligure, dove nel 1991 è affondata la Haven, per un errore durante dei lavori di manutenzione. E i pescatori, dalle reti tirano su il catrame.

Nel mare Mediterraneo ci sono 100 piattaforme: per capire come vengono gestite basta andare sulla piattaforma Vega della Edison, al largo di capo Pachino.

Il responsabile della piattaforma ha dato al giornalista molte rassicurazioni: l'ultimo incidente è avvenuto nel 1989 e le valvole di sicurezza impediscono la risalita del greggio.
Eppure i magistrati hanno rinviato a giudizio i vertici della Edison per inquinamento: hanno sversato in un pozzo marino (a 2000 mt) l'acqua di lavaggio e di sentina delle stive (che non venivano mai scaricate a terra), con un risparmio di 67 milioni. Alla Vega si difendono dicendo di avere un'autorizzazione del ministero dell'industria del 1989, ma serviva anche un'autorizzazione del min. Dell'ambiente.

Dicono che il petrolio, essendo un elemento naturale, verrà riassorbito dall'ambiente (se anche dovessero esserci delle fuoriuscite): anzi, ti dicono anche dopo 15-20 anni non c'è più traccia di petrolio dei fondali e che la flora è addirittura più bella di prima. Ci vuole un bel coraggio, per dire certe cose.

Anche perchè basta andare sul mar Ligure, dove è affondata la Haven:144 mila tonnellate di greggio sono finite in mare, e una parte di queste viene pescato ogni giorno da pescherecci come il Bacinin, dove si è imbarcato Ranucci.

Da 20 anni i pescatori tirano su pesce mischiato a pezzi di catrame molle: “è una vergogna” dicono, dover mettersi a pulire gli scampi e moscardini da petrolio, lattine e altra plastica.
Ed è altrettanto una vergogna che nessuno si sia preoccupato di incentivare questi pescatori di recuperare il catrame (anzichè ributtarlo in mare), dando loro dei contenitori.
Forse, dopo 20 anni, un po' di pulizia loro l'avrebbero fatta.
Perchè lo stato italiano, i governi che si sono susseguiti, non hanno pulito il fondale. E le immagini del catrame testimoniano al di là di ogni giorno.

Nel 1995 i ricercatori della ICRAM (incaricati dal ministero) sono andati a -700 metri per constatare i danni dell'affondamento: fin dal 1995 il ministero dell'ambiente sa della distesa di catrame sul fondo del mar Ligure. E non si può certo dire che questo sia naturale: alcuni studi hanno evidenziato come il petrolio porti a forme tumorali nei pesci che vi stanno a contatto.

Ma si è deciso di non far nulla: basta non informare le persone, qualche soldino per le amministrazioni locali e basta.
La giustizia ha detto che nessuno è responsabile, la colpa è del comandante che è morto.
Eni e Iri avevano stimato in 2000 miliardi il risarcimento: il governo italiano, prima con Andreotti, poi con Prodi, si è accontentato di 117 miliardi: ci siamo accontentati solo di misure di ripristino “ragionevoli” (quanto sa essere ipocrita la nostra politica …). Forse il fatto di avere tra le aziende di stato l'Eni, che proprio di petrolio si occupa, ha bloccato i politici dal chiedere maggiori risarcimenti. Così 32 miliardi sono finiti in bonifiche, 62 miliardi per i comuni colpiti (e sono stati utilizzati per le passeggiate lungomare e affini). Comunque non sono stati vincolati per le bonifiche, disattendendo una legge del 1998.

L'assessore all'ambiente della Liguria, intervistata, sosteneva che è meglio non bonificare (lasciamo tutto là sotto, occhio non vede …) e che comunque non ci sono problemi.

I 30 milioni di euro avanzati sono stati usati prima dalla Protezione Civile, subentrata nel 2005, per mettere in sicurezza la Haven. Il resto è stato trasferito per altri scopi nel 2009: come per la messa in sicurezza il sito dell'azienda Stoppani che aveva contaminato col cromo terreni e acqua, e per pagare gli ammortizzatori sociali ai lavoratori che hanno perso il lavoro.

L'azienda privata fallisce e il pubblico paga.
Per la protezione civile il problema è risolto (come anche altre emergenze, come i rifiuti in Campania e Napoli tra l'altro): non esiste il petrolio nel mare.

La vicenda della Luisiana dovrebbe aver insegnata una cosa: che dei rischi ambientali è bene occuparsi prima. Perchè dopo, lo sappiamo già cosa succede: scaricabarile, risarcimenti che non arrivano, bonifiche che non si fanno.

Chi doveva controllare le valvole di sicurezza della piattaforma, le procedure e il piano di sicurezza? La PB oggi non concede interviste, non permette la ripresa delle immagini sulla spiaggia, nelle paludi, al largo.

Succede che paga solo la povera gente. Meditate gente, meditate ….

Significa che si dovrebbe controllare con grande scrupolo i certificati e la documentazione che le aziende che vengono a trivellare nei nostri mari. Ecco, quali requisiti si richiedono a queste imprese, da parte dei ministeri italiani, quelli che dovrebbero controllare ?

Sigfrido Ranucci ha fatto un'altra triste scoperta: seguendo la richiesta della S Leon Energy per una concessione al largo di Sciacca, per la ricerca di idrocarburi, ha scoperto come le carte siano in realtà dei copia incolla di altri documenti.
Non serve fare un sopralluogo. L'azienda ha sede legale in un'edificio privato a Lecce, è stata fondata a Roma da un irlandese, e il proprietario è un ex assicuratore.

Nella domanda per fare le trivellazioni al largo di Sciacca non sono state fatte indagini sugli effetti sulla pesca, sui banchi di coralli, non ha tenuto conto di un vulcano in fondo al mare ancora attivo.
Lo studio sull'impatto ambientale non ha una firma, né un timbo (non sono richiesti, dicono): contiene errori macroscopici (Sciacca non è vicino Ancona) ed è lo stesso documento usato per la richiesta di perforazioni al largo di Mazara. Un lavoro a dir poco superficiale: il geologo che l'ha redatto si giustificava dicendo che così dice la legge, che è solo un frutto di una ricerca bibliografica, che quello che importa è solo la tecnologia (delle perforazioni) non della diversa natura dei fondali dei mari italiani.
Ecco: ci sentiamo più tranquilli adesso?
Chi è questa S. Leon che vuole venire a trivellare in pianura padana e nel mare di Sicilia?
Un'azienda con una sede fantasma, con un capitale formale di 10000 euro, che presenta della documentazione fatta con ricerche sui libri?

Azienda che si è pure permessa di scrivere sul suo sito (e informare la borsa si Londra) che le autorizzazioni sono state già concesse: ma non è un reato dare false notizie al mercato?

È cinico dirlo, ma proprio grazie all'ondata emotiva dopo il disastro in Luisiana, il Consiglio dei Ministri ha varato regole più stringenti e dunque l'iter è bloccato, al momento.
Ma come al solito, si è dovuti arrivare alla tragedia.

Report ha anche parlato del caso dei capodogli spiaggiati nel dicembre scorso, sulle spiegge del Gargano. Cercando di dare una risposta alla domanda sul perchè questi tre giovani esemplari sono andati a morire qui, Ranucci ha parlato delle “airguns”. Sono navi per esplorazioni marine, che lanciano tramite dei tubi, aria compressa nel mare, provocando un botto che potrebbe aver spaventato i capodogli.

L'autopsia ha mostrato come questi animali non mangiavano da giorni e avevano nello stomaco reti, plastica, sacchetti. Sono abituati a stare nel mare Tirreno, più profondo, non nell'Adriatico.

Non esistono studi che dimostrano la correlazione tra gli airguns e lo spostamento improvviso di questi mammiferi nell'Adriatico, ma nemmeno ci si pone la domanda se siano necessari.
Perchè si parte sempre dal presupposto che tutto quello che fa l'uomo sull'ambiente sia lecito, specie se fatto in nome del profitto (per pochi).
Quando poi succede la tragedia, è già troppo tardi.

E la domanda è sempre la stessa: chi paga?

La scheda della puntata di Report.
Scampi al petrolio, Il fatto

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