25 gennaio 2009

Porte aperte di Gianni Amelio

Palermo, 1937, gli anni ruggenti: un uomo entra negli in nel suo ex ufficio e uccide con una baionetta il suo superiore (l'avvocato Spadafora) e un ex collega, che ne aveva preso il posto. Esce, torna alla sua auto dove l'aspetta la moglie e partono: in aperta campagna la violenta e uccide anche lei.
Inizia così, a pieno ritmo questo film tratto dal libro di Leonardo Sciascia: tre morti senza un perchè e l'omicida Tommaso Scalia (Ennio Fantastichini), subito catturato e messo in carcere, che sembra voglia finire dritto davanti al plotone di esecuzione.

Ma, c'è un ma, il giudice a latere Vito De Francesco (Gian Maria Volontè) vuole approfondire la storia: tutto troppo semplice, l'assassino reo confesso, il plotone che aspetta, la gente che urla nell'auta del tribunale che pure lei aspetta che giustizia venga fatta.
Anche Scalia, alla prima udienza urla, strane parole sulla rivoluzione fascista tradita, rivoluzione da cui è stato tradito anche lui ..

Un processo che sembra fin troppo semplice, se non ci fossero gli scrupoli e i dubbi del giudice De Francesco che confida al presidente della corte Sanna, che gli risponde “i suoi sono pensieri pericolosi ..”.
De Francesco fa interrogare i colleghi di Scalia e la moglie del primo morto, l'avvocato Spadafora.

Si scopre così che l'assassino aveva falsificato i bilanci da almeno 5 anni, ma era stato licenziato solo da poco. Come mai?
Sempre nel processo viene fuori che il luogo del delitto era la Confederazione degli artisti: sempre il giudice scopre che l'economo della confederazione (che rispondeva a Spadafora) aveva trasferito dei fondi verso l'ospedale. Come mai? “Un pasticcio” risponde l'economo che aveva un posto anche all'ospedale.
In aula viene chiamata anche la moglie di Spadafora, tra le proteste della folla che vorrebbe una condanna e basta (“ma a chi si fa il processo” .. “la giustizia ce la faremo noi, quando vogliamo noi e dove vogliamo noi”).

De Francesco riceve le confidenze del superiore, dei consigli ad assumere un tono meno zelante, più prudente: in realtà teme che tutte le domande al processo facciano emergere una realtà che è bene stia nascosta. Seduto sulla sua poltrona spiega “non vorrei che venissero i facchini a portarsi via i mobili”.

In aula l'autista di Spadafora parla della relazione tra quest'ultimo e la moglie di Scalia (che spiegherebbe l'ultima morte): relazione che si consumava nella casa del secondo morto (il ragioniere Speciale) e che anche Scalia stesso sapeva dei due.
De Francesco subisce le pressioni di un altro giudice, durante un pranzo, voce di interessi superiori, che premono per la condanna a morte.
“Processo dopo processo dobbiamo fare in modo che la gente possa andare a dormire lasciando aperta la porta di casa”. Senza preoccupazioni per ladri, deviati … Ma il giudice risponde che “io le porte di casa mia, le chiudo sempre”.

Nell'ultima camera di consiglio, mentre il plotone è gia pronto a fucilare Scalia, De Francesco trova nel giudice popolare Consolo un alleato per opporsi alla pena di morte. Questo si oppone ad una decisione rapida: “non è vero che abbiamo poco da discutere .. dobbiamo ancora cominciare”.
Perchè non se la sente di condannare alla morte: anche se non sarà lui a sparare, in ogni caso si sentirebbe corresponsabile della fucilazione.

Alla fine Scalia riceva l'ergastolo: il film si chiude con l'ultimo incontro tra Consolo e De Francesco, ad un matrimonio.
De Francesco è stato trasferito presso un tribunale di montagna: meglio così, non riusciva più a continuare a stare in quel tribunale dove, i sotterranei sono pieni di fascicoli di morti giudicati da altri morti.
Ma Consolo lo rassicura, il suo lavoro non è stato inutile: “la vite sradicata lascia sempre una radice”.
Nel finale la didascalia spiega che in appello Scalia è stato condannato a morte e fucilato nel 1938.

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