18 marzo 2024

Presadiretta –Stop ai veleni

È il più grave caso di inquinamento di una falda idrica in Europa, che coinvolge 350mila persone nel Veneto. Si tratta dell’inquinamento per PFAS da parte di dell’azienda Mitemi: ma oggi altre regioni, altri corsi d’acqua sono inquinati da PFAS, la cui bonifica ci costerà cara, non solo in termini economici.

Ma ci sono alternative ai PFAS nell’industria?

L’inquinamento da PFAS in Veneto

Il legame tra l’atomo di Carbonio e quello di Fluoro, alla base dei PFAS, è indissolubile, furono inventati ai tempi del progetto Manhattan e oggi sono usati ovunque, dalle padelle antiaderenti ai tessuti.

In Veneto la Mitemi è oggi a processo per l’inquinamento di una falda, per le mancate bonifiche: il più grande processo per reati ambientali ma, come racconta Philippe Grandjean (chiamato a testimoniare al processo), i PFAS stanno già creando danni mortali nella popolazione.

I PFAS passano dalla mamma al feto, che viene intossicato già nel grembo: le mamme nel Veneto si sono così associate per poter avere acqua pulita, sono le mamme no-pfas, che Presadiretta aveva incontrato sin dal 2016.

Chiedono alla regione la bonifica di questa zona, perché questa azienda ha avuto grandi profitti e le bonifiche sono ancora a carico del pubblico. Non solo, la fabbrica continua a sversare inquinanti nella falda.

I bambini nati qui hanno valori di colesterolo alto, problemi di diabete, problemi alla tiroide: “sappiamo di avere una bomba ad orologeria dentro”, dice a Presadiretta una mamma.

Il professor Grandjean spiega meglio i rischi dei PFAS: “queste molecole [del PFAS] non si rompono perché servono temperature di almeno mille gradi per distruggerle.. questi inquinamenti possono aumentare il colesterolo, contribuire al diabete e all’obesità, influenzano la funzione della tiroide, la fertilità, forse anche il sistema nervoso centrale. In una gravidanza possono causare aborti spontanei o un basso peso del bambino e certamente i PFAS aumentano il rischio di cancro ai reni, probabilmente anche al seno e ai testicoli e alla vescica. Perché agiscono sul sistema immunitario che ha l’importantissima funzione di eliminare le cellule disfunzionali, quindi il nostro corpo non si può difendere dal cancro.”

L’agenzia internazionale del cancro ha confermato le parole di Grandjean: una pessima notizia per le persone che queste sostanze, i PFAS, le hanno già nel sangue. E i bambini, ancora nella placenta, hanno dosi ancora più massicce.

I ragazzi dentro la zona rossa in Veneto devono sottoporsi a degli screening, in particolare per capire l’impatto sulla loro fertilità: i PFAS non solo uccidono, ma tolgono anche il futuro a questo territorio.


Servirebbe un rapporto epidemiologico completo per stabilire la correlazione tra PFAS e malattie: ancora non c’è, nonostante regione e ministero avessero lavorato assieme nel 2018, ma poi tutto il lavoro fu fermato. LA regione – racconta il dottor Crisanti – ha scelto di non vedere, per non dover prendere delle decisioni.

Ma questo disastro era evitabili? I primi studi sul PFAS erano noti dagli anni 70: gli effetti avversi erano noti, purtroppo, in base a studi sugli animali e sugli uomini. Sono studi fatti dalla 3m e dalla Dupont, condivisi alla Mitemi: la Dupont iniziò ad acquistarlo dalla 3m, ha incrementato la produzione

Ma l’inquinamento da PFAS non è limitato alla sola regione Veneto, dove i pFAS continuano a distruggere l’ambiente.

Francesco Bertola è il presidente dell’ISDE in Veneto: a Presadiretta racconta di come l’inquinamento continua ad andare avanti anche solo perché l’acqua del rubinetto viene usata per innaffiare l’orto. Ad essere inquinata non è solo l’acqua, il terreno, nel cibo.

A Monza, all’istituto del CNR che analizza le acque inquinate, hanno analizzato le acque di un pozzo di una abitazione nella zona rossa: l’acqua inquinata contamina i cibi se usata per la cottura, se usata per pulire gli ortaggi. Non c’è scampo al PFAS, anche se si abita lontano dai luoghi inquinati, perché sono tanti i prodotti realizzati con i PFAS.

Mobili trattati con PFAS, il cartone della pizza, le padelle, la tappezzeria (perché non assorbe l’acqua), nei vestiti, nelle carte da forno, la carta igienica.

Il forever pollution project, uno studio promosso da Le Monde ha rivelato che il PFAS è diffuso in tutta Europa: la mappa dello studio copre tutto il continente, la sua rimozione richiederebbe cifre enormi, sarà la bancarotta della società moderna, anche gli stati ricchi andrebbero in default.

In Italia ci sono gli inquinamenti nelle zone dove erano presenti industrie chimiche, ma ci sono tracce di inquinamento anche in Toscana.

A Pistoia nel distretto dei vivai, a Prato nel distretto tessile, a Pisa dove si lavora il cuoio a San Miniato, il distretto conciario in zona Santa Croce sull’Arno e infine il distretto cartaio a Pisa.

In tutte queste zone, in tutti i campioni sono state trovate tracce di PFAS, dove gli impianti di depurazione sono inefficaci nel filtrare queste molecole.

Giuseppe Ungherese di Greenpeace racconta del far west normativo in Italia, non esistono dei vincoli per legge per i PFAS, perché la politica ha sempre sottovalutato questo problema.

Ma anche in Europa non si sta bene: servirebbe una legge europea per vietare il PFAS in toto, ma le aziende stanno facendo pressioni per bloccare questa legge. L’Italia non sta facendo pressioni per fare questa legge, nonostante proprio nel nostro paese sia avvenuto il grave caso di avvelenamento in Veneto.

Ma l’industria continua a lavorare coi PFAS: in Piemonte la Solvay è al centro del caso di Montecastello, ad Alessandria.

Qui l’ARPA ha trovato PFAS nei pozzi della zona e nell’acquedotto: sono i fluoruri di nuova generazione prodotti dalla Solvay stessa, l’azienda sostiene che sono meno dannosi.

Il comune aveva speso 400mila euro per costruire questo pozzo che ora non può essere usato, ma l’azienda non si ritiene responsabile (spiegando di essere troppo distante dal pozzo), aggiungendo di ritenere sicuro il limite di 7 microgrammi/litro. Ma Solvay non può sostituirsi ad Arpa o ai medici: i ricercatori del CNR stanno lavorando sul caso di Montecastello non credono all’azienda e ora hanno deciso di monitorare l’acqua dei fiumi, le uova dei pesci e in generale degli animali che si muovono attorno a questa zona.

La contaminazione da PFAS è confermata anche da ARPA Alessandria: sono presenti nell’aria, nell’acqua e nei terreni anche lontani dal polo industriale. In assenza di valori limite di riferimento non c’è modo di stabilire quanto ampia sia l’area inquinata.

Questo inquinamento dell’aria e dell’acqua porta patologie al fegato, tumori renali, problemi a carico dei bambini: lo racconta a Presadiretta l’epidemiologa Cristiana Ivaldi dell’Arpa Piemonte – “mi dispiace quando si sente parlare dell’Ilva e si dice, ma come si è arrivato a questo? Si è arrivati per inerzie di anni di chi doveva controllare e non l’ha fatto, chi doveva intervenire e non l’ha fatto . A noi interessa tutelare la salute delle persone e quindi se qualcuno dice che non c’è niente, approfondiamo, se non troviamo niente non c’è problema. Io se mi fermano ad un posto di polizia e ho la coscienza pulita, non ho paura a fermarmi per farmi controllare”.

Cristiana Ivaldi aspetta il mandato della regione per proseguire l’indagine epidemiologica: ma in Piemonte come nel Veneto questa indagine manca, così le analisi sulla salute degli abitanti di Spinetta, a ridosso dello stabilimento della Solvay, arrivano da un team giornalistico belga.

Oggi contro questo inquinamento si stanno mobilitando i comitati dei cittadini, come quelli di Spinetta: sono persone arrabbiate contro le istituzioni, ma anche preoccupate perché questo inquinante c’è ma non si vede.

Chiedono lo stop dell’azienda Solvay, una legge nazionale sullo sversamento di inquinanti nelle acque dei fiumi e nell’aria.

Di fronte a certe malattie non si può far finta di niente – racconta una ragazza di Spinetta i cui genitori sono morti per tumore – come faccio a fare un figlio qui?

L’indagine epidemiologica al momento non è stata fatta – racconta il sindaco di Alessandria – perché mancano i soldi e perché non avrebbero gli strumenti.

Nel frattempo la regione sta facendo un’analisi muovendosi a cerchi concentrici, partendo dagli abitanti a ridosso dello stabilimento: come mai si sono aspettati cinque anni, però?

L’assessore all’ambiente in Piemonte spiega che già a marzo dovrebbero arrivare i primi dati, ma il tempo passa e gli inquinanti restano.

Già nel lontano 2007 uno studio europeo sospettava che la multinazionale Solvay contaminasse le acque del Po col il PFOA, il composto ora vietato in quanto ritenuto cancerogeno. Presadiretta ha rintracciato l’autore dello studio Michael Mc Lachlan: “abbiamo prelevato campioni dai principali fiumi europei e abbiamo calcolato il contributo totale di tutti questi fiumi, la quantità totale di PFOA che entrava negli oceani e abbiamo scoperto che il fiume Po contribuiva per i due terzi al totale di tutta l’Europa o, in altre parole, che c’era il doppio di PFOA che scorreva nel fiume Po rispetto a tutti gli altri fiumi che avevamo studiato tutti insieme”.
Perché il PFOA era nel fiume Po?
“Eravamo sicuri che ci fosse una fonte industriale perché i livelli erano così alti e poi abbiamo identificato Solvay come probabile fonte di queste sostanze chimiche, perché sapevamo che produceva sostanze chimiche perfluorurate per quel bacino idrografico. Solvay era un partner del progetto in cui eravamo coinvolti, così gli abbiamo scritto informandola dei nostri risultati e chiedendole di indagare. Ci hanno risposto con una lettera in cui spiegavano che la loro azienda non poteva essere la fonte della contaminazione ”

Secondo l’azienda le fonti di inquinamento erano plurime, negando le loro responsabilità: dopo quella lettera, però, Solvay non mandò altre comunicazioni a Mc Lachlan. Solvay sapeva, dunque, era già stata avvisata dei rischi nel 2007.

Nella lettera a Presadiretta Solvay scrive di voler dismettere l’uso dei PFAS. Ma la battaglia per distruggere i PFAS è lunga e costosa

Presadiretta ha visitato la centrale idrica Acque Veronesi, di Madonna di Lonigo a Vicenza, nell’epicentro dell’inquinamento per PFAS. Fornisce acqua potabile ad un bacino di 50mila persone, sono stati i primi a pulire l’acqua da PFAS installando dei filtri a carbone attivo, ricavati dalle noci di cocco. Nella centrale ci sono 20 filtri, enormi, ciascuno contiene 13mila kg di carbone attivo, che continuano a depurare le acque che continuano ad essere ancora inquinate.

Ma i filtri costano, circa 1,5 ml di euro l’anno, perché i carboni attivi devono essere cambiati spesso (una volta al mese): tutto questo è a carico dei contribuenti in bolletta. C’è poi il tema della rigenerazione dei filtri, per distruggere le molecole sul carbone (con processi che richiedono temperature molto elevate) e poterli riusare e anche questo ha un costo.

Al Politecnico di Milano la dottoressa Silvia Franz sta studiando processi alternativi per distruggere il PFAS: si studia il biossido di Titanio, per degradare i PFAS, arrivando a del materiale di scarto su cui si stanno facendo analisi per capire quanto siano ancora inquinanti.

Il tema delle bonifiche è sentito anche in Danimarca, dove Presadiretta ha visitato il più grande centro di studi sul PFAS (PFAS test center): il centro sorge accanto ad un centro di addestramento per vigili, che scaricava nel fiume le schiume dove era presente questo inquinante.
Si studia la cattura di PFAS tramite bolle d’aria presenti nell’acqua: qui lavora il professor Dondero, che sta lavorando sui PFAS a catena corta, composti più difficili da rilevare e su cui si conosce poco dei danni che possono provocare.

A Presadiretta il professor Dondero spiega che va regolato sia l’uso a breve termine, che gli impatti nel lungo termine, cosa succede nei terreni se rimane questo inquinante per anni.

Va limitato l’uso del PFAS, adesso, anche in luoghi un tempo incontaminati, come l’Artico, dove ad essere contaminati sono le persone e anche gli animali. Tutta la catena alimentare ha al suo interno i PFAS: perché le persone devono pagare questo prezzo, noi non abbiamo inquinato questi territori – racconta il dottor Grandjean a Presadiretta – ritrovato nelle isole Far Oer.

Un mondo senza PFAS è possibile: si possono fare pentole antiaderenti, giacconi repellenti all’acqua senza PFAS. Lo ha raccontato l’ultima parte del servizio: produrre senza PFAS si può, ma conviene anche.

La Pure Print produce contenitori per prodotti alimentari senza PFAS in Danimarca (che è PFAS free dal 2020): usano prodotti compostabili, come carta o cartone. Hanno cambiato produzione sin dal 2007, per rimanere sul mercato, per realizzare un prodotto sostenibile: il prodotto ha costi maggiori, ma i loro prodotti hanno una resa molto promettente.

La Coop danese, la catena di supermercati, ha fatto sparire i prodotti coi PFAS dai loro scaffali, senza aspettare che si muovesse la politica.

In Italia si stanno sperimentando pompe di calore e impianti di refrigerazione senza PFAS: i gas refrigeranti non sono pensati per essere emessi nell’atmosfera – racconta il professor Del Colle che nei suoi esperimenti sta usando gas naturali.

È quello che sta facendo la Epta Group, una azienda che si occupa di macchine per refrigerazione: anche loro non hanno aspettato la politica ma si sono mossi prima per un principio di precauzione.

Alla Daykem a Prato si stanno sperimentando tessuti impermeabili senza PFAS: le performance che stanno ottenendo sono anche superiori. Il responsabile dell’azienda è fiducioso, tra qualche anno potremmo arrivare ad un mercato PFAS free.

In Germania c’è l’azienda Vaude, specializzata nel vestiario per gli sport di montagna: i loro prodotti devono essere impermeabili.

Presadiretta ha intervistato Bettina Roth, responsabile del settore qualità di Vaude: usavano per i loro tessuti i PFAS per renderli impermeabili all’acqua che rimane in superficie e scivola via. Ora, dopo anni di ricerca, i tessuti di nuova generazione hanno la stessa idrorepellenza, ma non contengono i PFAS, ma usano una tecnologia in poliuretano: “non è vero che nel tessile ai PFAS non c’è alternativa, al giorno d’oggi non c’è motivo per continuare ad usarli, tante aziende li usano ancora perché è economico ed è più semplice”.

E i prodotti realizzati con questi tessuti funzionano in caso di pioggia, come ha testato direttamente il giornalista di Presadiretta.

Cosa aspetta l'Italia a seguire l'esempio di Danimarca e Germania, nel limitare l'uso di questi inquinanti, specie ora dove sappiamo tutti quanto è grande l'impatto sull'ambiente e sulla nostra salute?

Anteprima Presadiretta –Stop ai veleni

La puntata di stasera sarà dedicata ai PFAS, pericolosi inquinanti usati dall’industria in molti settori, dai vestiti alle padelle. Si è scoperto ora che sono arrivati nel nostro sangue: quali sono le conseguenze per il nostro organismo e come possiamo liberarcene?

Presadiretta aveva racconta della contaminazione del PFAS già nel passato: la sostanza usata ancora dalle industria (per esempio per le pentole antiaderenti ma anche l’industria conciaria) che aveva inquinato le false in Veneto nel silenzio delle amministrazioni, suscitando uno scandalo da parte delle associazioni ambientaliste (le mamme no pfas) e poi l’inchiesta della procura di Vicenza, culminata col maxi processo sul caso Miteni.

Durante il processo tenuto a Vicenza per l’inquinamento da PFAS, è intervenuto anche Philippe Grandjean massimo esperto degli effetti che questo inquinante ha sulla nostra salute.

Al processo contro la Miteni, l’azienda ritenuta responsabile dell’inquinamento e imputata per disastro ambientale e inquinamento delle acque, erano presenti molti rappresentanti delle parti civili, interessate a sentire la sua deposizione.

Ai giudici ha riportato il suo giudizio: “la mia posizione è chiara, l’inquinamento ha già avuto rispercussioni sulla salute pubblica come sappiamo dalla mortalità. L’esposizione ai PFAS su scala internazionale è eccezionale, direi addirittura scandalosa.. ”
Di fronte a Presadiretta ha spiegato meglio: “queste molecole [del PFAS] non si rompono perché servono temperature di almeno mille gradi per distruggerle.. questi inquinamenti possono aumentare il colesterolo, contribuire al diabete e all’obesità, influenzano la funzione della tiroide, la fertilità, forse anche il sistema nervoso centrale. In una gravidanza possono causare aborti spontanei o un basso peso del bambino e certamente i PFAS aumentano il rischio di cancro ai reni, probabilmente anche al seno e ai testicoli e alla vescica. Perché agiscono sul sistema immunitario che ha l’importantissima funzione di eliminare le cellule disfunzionali, quindi il nostro corpo non si può difendere dal cancro.”

La regione Veneto, il ministero dell’Ambiente e della Salute sapeva di questo inquinamento sin dal 2013: è quanto emerge dallo stesso processo dalle dichiarazioni degli esperti del CNR hanno condotto degli studi sui bacini fluviali conclusosi nel febbraio 2013 che abbracciano circa 30 comuni tra Padova e Vicenza:

«Ho iniziato a studiare i Pfas - ha detto rispondendo alle domande degli avvocati dei responsabili civili Cammarata e Scuoto, e di quelli di parte civile Ceruti e Tonnellotto - tra il 2007 ed il 2008 in seguito alla notizia di uno studio europeo del 2006. Ci sono voluti circa un paio d’anni per partire con il nostro progetto, ovverosia nel 2011. Nel Vicentino per i prelievi ci siamo fatti accompagnare da Arpav. Ma è stata nella seconda fase, quella conclusasi a febbraio 2013, che è venuta alla luce la maxi contaminazione da Pfas nelle acque superficiali coinvolgendo una trentina di comuni racchiusi tra i territori di Vicenza, Padova e Verona. Abbiamo individuato “Miteni” come principale fonte di pressione. Abbiamo indagato, per verificare eventuali altre sorgenti, anche il distretto conciario di Arzignano, ma le concentrazioni trovate sono state molto basse. Così pure per il distretto del tessile nella valle dell’Agno».

In precedenza è stato sentito il direttore tecnico di Arpav, Paolo Rocca, che ha più volte sottolineato di «non aver avuto un ruolo operativo» e, in riferimento agli anni passati, ha spesso eluso le domande degli avvocati della difesa.

Ma non c’è solo il Veneto col caso Miteni: anche in Piemonte, a Spinetta Marengo accanto allo stabilimento della Solvey, è avvenuto un inquinamento importante – lo racconta a Presadiretta l’epidemiologa Cristiana Ivaldi dell’Arpa Piemonte – “mi dispiace quando si sente parlare dell’Ilva e si dice, ma come si è arrivato a questo? Si è arrivati per inerzie di anni di chi doveva controllare e non l’ha fatto, chi doveva intervenire e non l’ha fatto . A noi interessa tutelare la salute delle persone e quindi se qualcuno dice che non c’è niente, approfondiamo, se non troviamo niente non c’è problema. Io se mi fermano ad un posto di polizia e ho la coscienza pulita, non ho paura a fermarmi per farmi controllare”.

Alcune anticipazioni del servizio sono già uscite sui quotidiani locali, dove la notizia dell’inquinamento e degli impatti sulla nostra salute sono più sentiti: dal sito Alessandria Today:

LA BATTAGLIA DI MARENGO

Alla fine di marzo dovremmo avere già i primi risultati del primo campione di persone che si sono sottoposte al prelievo”.

Ce lo dice Antonino Sottile, direttore della Sanità piemontese, nell’ambito dell’inchiesta di Presa Diretta dedicata all’inquinamento da PFAS nella provincia di Alessandria. La Regione ha appena cominciato il biomonitoraggio su un campione di abitanti delle zone limitrofe al polo chimico della Solvay. Il campione identificato dalla Regione Piemonte è per ora limitato ma, a quanto sostiene Sottile, potrebbe allargarsi per comprendere tutti gli abitanti e determinare il nesso di causalità tra malattie e inquinanti.

È proprio quello che manca per fare chiarezza sugli aumenti di malattie, ricoveri e mortalità nella popolazione di Spinetta Marengo. Nel nostro racconto parleremo della battaglia che stanno facendo i comitati della zona per completare lo studio epidemiologico pubblicato nel 2019, che doveva avere una fase conclusiva che il Comune di Alessandria, come afferma il sindaco Giorgio Abonante “non è minimamente in grado di finanziare da solo perché ha un costo molto alto”.
Nel racconto PresaDiretta ha acceso le telecamere anche su Montecastello, dove il sindaco Gianluca Penna “è stato costretto a chiudere un pozzo costato 400.000 euro, per la presenza nell’acqua del C6O4, PFAS di nuova generazione prodotto esclusivamente da Solvay“. I ricercatori dell’IRSA-CNR Stefano Polesello e Sara Valsecchi racconteranno quanto è difficile per la ricerca rincorrere le aziende sulle nuove molecole brevettate, che restano in produzione per anni e, quando si riesce a dimostrare la loro tossicità, come dice Polesello “è ormai troppo tardi” per fermare i danni della contaminazione su territorio e abitanti.

Dopo Veneto e Piemonte con l’inquinamento dei poli chimici di Mitemi e Solvay, Presadiretta racconterà dell’inquinamento da PFAS in Toscana: a Pistoia nel distretto dei vivai, a Prato nel distretto tessile, a Pisa dove si lavora il cuoio a San Miniato, il distretto conciario in zona Santa Croce sull’Arno e infine il distretto cartaio a Pisa.

Per sanare le acque nelle falde ci vorranno almeno 500 anni, sempre che si smettesse sin da ora di inquinarle: un tempo lunghissimo che dovrebbe far riflettere sulla pericolosità nell’uso dei PFAS da parte dell’industria.
In Veneto la regione ha dichiarato che, dopo aver interpellato l’Istituto Superiore della Sanità
è stata avviata la definizione degli aspetti utili all’avvio dello studio”, ovvero il rapporto epidemiologico che permetterebbe di stabilire chi ha inquinato e quando, rapporto che è atteso da troppi anni.
Le bonifiche hanno dei costi enormi, come anche i filtri per le acque inquinate: Presadiretta visiterà la centrale idrica
Acque Veronesi, di Madonna di Lonigo a Vicenza, nell’epicentro dell’inquinamento per PFAS. Fornisce acqua potabile ad un bacino di 50mila persone, sono stati i primi a pulire l’acqua da PFAS installando dei filtri a carbone attivo, ricavati dalle noci di cocco. Nella centrale ci sono 20 filtri, enormi, ciascuno contiene 13mila kg di carbone attivo, che continuano a depurare le acque che continuano ad essere ancora inquinate.

Il problema è che il tempo passa e gli inquinanti restano, già nel lontano 2007 uno studio europeo sospettava che la multinazionale Solvay contaminasse le acque del Po col il PFOA, il composto ora vietato in quanto ritenuto cancerogeno. Presadiretta ha rintracciato l’autore dello studio Michael Mc Lachlan: “abbiamo prelevato campioni dai principali fiumi europei e abbiamo calcolato il contributo totale di tutti questi fiumi, la quantità totale di PFOA che entrava negli oceani e abbiamo scoperto che il fiume Po contribuiva per i due terzi al totale di tutta l’Europa o, in altre parole, che c’era il doppio di PFOA che scorreva nel fiume Po rispetto a tutti gli altri fiumi che avevamo studiato tutti insieme”.
Perché il PFOA era nel fiume Po?
“Eravamo sicuri che ci fosse una fonte industriale perché i livelli erano così alti e poi abbiamo identificato Solvay come probabile fonte di queste sostanze chimiche, perché sapevamo che produceva sostanze chimiche perfluorurate per quel bacino idrografico. Solvay era un partner del progetto in cui eravamo coinvolti, così gli abbiamo scritto informandola dei nostri risultati e chiedendole di indagare. Ci hanno risposto con una lettera in cui spiegavano che la loro azienda non poteva essere la fonte della contaminazione ”

Ci sono alternative all’uso del PFAS nell’industria? Presadiretta ha intervistato Bettina Roth, responsabile del settore qualità di Vaude: usavano per i loro tessuti i PFAS per renderli impermeabili all’acqua che rimane in superficie e scivola via. Ora, dopo anni di ricerca, i tessuti di nuova generazione hanno la stessa idrorepellenza, ma non contengono i PFAS, ma usano una tecnologia in poliuretano: “non è vero che nel tessile ai PFAS non c’è alternativa, al giorno d’oggi non c’è motivo per continuare ad usarli, tante aziende li usano ancora perché è economico ed è più semplice”.

E i prodotti realizzati con questi tessuti funzionano in caso di pioggia, come ha testato direttamente il giornalista di Presadiretta.

A Prato il giornalista di Presadiretta Antonio Laganà racconterà una seconda esperienza positiva, quella dell’azienda chimica Daykem che nelle sue lavorazioni non fa uso dei PFAS.

La scheda del servizio:

Si possono trovare in uno smalto, negli imballaggi da fast food, persino nelle lenti a contatto: si chiamano Pfas, sostanze per-e poli fluoroalchiliche e sono stati definiti “inquinanti eterni” perché si trovano nell’acqua, nei cibi, addirittura si trasmettono di madre in figlio e per distruggerli è necessaria una temperatura di almeno 1000 gradi. “Presadiretta”, il programma di Riccardo Iacona in onda lunedì 18 marzo alle 21.20 su Rai 3, racconta questo nemico invisibile attraverso un viaggio nelle zone più contaminate in Italia e nel resto di Europa. Si parte dal Veneto, dove tutto è iniziato e dove la Miteni ha prodotto un tipo di Pfas per oltre 50 anni e ora deve affrontare un processo per disastro ambientale.
In Piemonte il gruppo chimico belga Solvay produce tuttora Pfas.
In Toscana una nuova indagine di Greenpeace conferma che alcuni distretti industriali contribuiscono alla contaminazione da Pfas delle acque superficiali. E poi nelle Isole Faroe, tra Gran Bretagna e Islanda, dove molti abitanti presentano tracce di Pfas nel sangue e dove il maggior esperto di queste sostanze, Philippe Grandjean sta conducendo una ricerca sugli effetti sul corpo umano.
Sulla pericolosità di queste sostanze si è interrogata l’Unione Europea: Norvegia, Svezia, Germania, Paesi Bassi e Danimarca hanno chiesto che i Pfas vengano vietati in blocco. L’Italia non si è pronunciata in merito, nonostante sia uno dei Paesi europei più inquinati dai Pfas. Migliaia di persone che vivono nelle zone contaminate soffrono di patologie anche mortali e l’industria sta cercando di correre ai ripari con nuove tecnologie per “vivere senza Pfas”. Ma liberarsi da queste sostanze tossiche non è facile e bonificare fiumi e terre avvelenati richiede un costo molto alto tanto che la giornalista di Le Monde Stéphane Horel ha detto: “l’inquinamento dei Pfas rappresenta la bancarotta dell’epoca moderna”.  
“Stop ai veleni” è un racconto di Riccardo Iacona, con Teresa Paoli, Paola Vecchia, Giuseppe Laganà, Raffaele Marco Della Monica, Fabio Colazzo, Matteo Del Bò. 

Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.

16 marzo 2024

La verità di comodo – il rapimento e la morte di Aldo Moro dopo 46 anni

 

Immagine presa da Wikipedia
gettyimages.com, Public domain, via Wikimedia Commons

Roma, 16 marzo 1978, poco prima delle 9 di mattina un commando delle Brigate Rosse (con qualche elemento estraneo probabilmente) fermano l’auto del presidente della DC, Aldo Moro, mentre si stava recando con la sua scorta in Parlamento a votare la fiducia al primo governo di unità nazionale, col sostegno esterno del partito comunista.

Da qui, col rapimento di Aldo Moro e la strage dei componenti della sua scorta, parte quello che è passato alla storia come “il caso Moro”, uno dei tanti misteri d’Italia. Vicenda che si sarebbe poi chiusa con la morte del presidente Moro, il cui cadavere fu fatto ritrovare in via Caetani (una strada nel centro di Roma non lontana dalla sede della DC e del PCI), 55 giorni dopo.

Un mistero che, col passare degli anni, col disinteresse da parte della politica nel districarsi in questo enigma, si è cristallizzato in una verità di comodo, quella raccontata dal memoriale delle Brigate Rosse, di Morucci e Faranda, fatto arrivare al presidente Cossiga e poi consolidata nelle sentenze emesse dai vari processi.

A rapire Moro, a gestire il rapimento e ad ucciderlo sono state solo le Brigate Rosse: in questo modo, con questa versione semplice, non si devono scomodare attori terzi, oltre oceano, dentro lo Stato, attenti osservatori della vicenda. Non si deve chiedere conto alle BR dei tanti perché, non si deve chiedere conto alla politica come mai per Moro si scelse la linea dura (nessuna trattativa con le BR, mai, lo stato non deve cedere), diversamente da quanto poi successo pochi anni dopo col sequestro Cirillo (o nel 1992-93 con la mafia dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio).

Meglio una verità di comodo che non fa nascere troppe domande, che consola la nostra coscienza, che non crea problemi alla DC e nemmeno alle BR (come mai gli scritti di Moro sono stati tenuti nascosti, diversamente da quanto avevano comunicato in un primo comunicato? Chi ha tirato fuori il falso comunicato numero 7?).

Una verità che cozza contro tutte le incongruenze emerse man mano che il velo di fumo calato sulla vicenda iniziava a dipanarsi: di queste se ne è occupata recentemente la trasmissione Report, suscitando una reazione infastidita, nervosa, sia da parte di ex brigatisti, sia da parte di doversi opinionisti improvvisatisi anche storici, strenui difensori della verità di comodo. Ad uccidere Moro sono state le BR e basta, tutto il resto è complottismo.

Ma è proprio il racconto delle BR, su cui le sentenze paradossalmente si basano, che ci costringe ad essere scettici: chi era presente in via Fani quel 16 marzo? Chi ha sparato quei colpi col mitra, in modo preciso, colpendo la scorta (visto che parte delle armi delle BR si incepparono)?
Cosa ci faceva un colonnello del Sismi, legato a Gladio, quella mattina in via Fani?
C’è poi il mistero della prigionia: l’ultima commissione di inchiesta su Moro presieduta da Moroni ha fatto eseguire diverse perizie sul cadavere, sul covo ufficiale in via Montalcini e sul garage, dove Moro sarebbe stato ucciso..

Le perizie non escludono né confermano, ma ritengono molto improbabile che Moro sia stato tenuto fermo, in pochi metri quadrati, visto lo stato del suo fisico. Come molto improbabile che il cadavere sia stato trasportato in quella Renault R4 dalla periferia al centro di Roma, troppo rischioso.

In tanti avevano interesse a bloccare Moro, la sua scelta politica di un governo con la “non ostilità” della sinistra. Ci sono stati interessi anche da parte del governo americano? Al momento non ci sono prove, nemmeno il servizio di Report arriva ad una conclusione. Non è complottismo però citare il lavoro del consulente del Dipartimento di Stato americano Steve Pieczenik, che nelle sue memorie spiega di essere stato mandato in Italia per bloccare ogni trattativa per liberare Moro. Non è complottismo ricordare le minacce ricevute da Moro nel suo viaggio negli Stati Uniti.

Non è complottismo ricordare che con la sua morte, inizia il declino della prima Repubblica, si consolida il ruolo della P2 dentro la politica, l’economia e la stampa. Non è complottismo ricordare che l’attuale versione non spiega tutte le incongruenze.

I brigatisti italiani sono stati eterodiretti, soldatini nelle mani di un puparo che stava sopra di loro?

I rapporti tra Moretti e Hyperion, la scuola di lingue a Parigi che è considerata una camera di compensazione tra servizi segreti appartenenti a blocchi contrapposti, farebbero pensare a questo.

Rimangono i misteri, i punti poco chiari, le parole di circostanza che verranno ripetute anche oggi, e poi dall’altra parte l’insegnamento di Aldo Moro: “quando si dice la verità non bisogna dolersi di averla detta: la verità è sempre illuminante. Siate indipendenti. ”.

Questi i nomi della scorta di Aldo Moro, spesso dimenticati nelle celebrazioni: il 
vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi, le guardie di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, il maresciallo maggiore dei carabinieri Oreste Leonardi e l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci.

14 marzo 2024

La scatola rossa, di Rex Stout


Wolfe fissò il nostro visitatore con gli occhi spalancati, segno per lui di indifferenza o di irritazione. Nel caso specifico, si trattava ovviamente di irritazione. «Ve lo ripeto, signor Frost: è inutile» dichiarò. «Non esco mai di casa per lavoro e non esiste ostinazione umana che mi possa costringere a farlo.

E' il primo romanzo che leggo dello scrittore americano Rex Stout, padre dell'investigatore-gourmet Nero Wolfe: questo "La scatola rossa", è il quarto della lunga serie, come tutti ambientato a New York negli anni 30. Tutta la vicenda ci viene racconta dalla voce di Archie Goodwin, il segretario nonché aiutante, una sorta di suo alter ego: tanto Nero Wolfe non ama mescolarsi alla gente né tantomeno uscire di casa, quanto il suo segretario ama godersi il mondo fuori da quella casa nella 35/a strada.

Come in questo caso, dove il delitto su cui Wolfe verrà chiamato ad indagare è ambientato nel mondo della moda tra stilisti e modelle. E' proprio una modella Molly Lauck la prima vittima: uccisa da un veleno inoculato dentro della frutta secca e canditi contenuti all'interno di una confezione che aveva lei stessa portata nel camerino.

La polizia non è riuscita a trovare alcuna traccia, alcun possibile movente così, dopo qualche giorno, il giovane Llewellyn Frost si presenta a casa dell'investigatore.

Frost è preoccupato del fatto che l'indagine possa coinvolgere sua cugina, Helen, sua "ortocugina" ci tiene a precisare (è un termine desueto, oggi avremmo detto primo cugino): c'è bisogno che Wolfe vada ad interrogare tutte le persone presenti all'ultima sfilata, Boyden McNair, Helen, le altre modelle.

Pur di convincere Wolfe ad uscire dalla sua "tana" è disposto a fargli arrivare le migliori orchidee per la sua serra, direttamente dai migliori coltivatori d'America.

Chiede anche un'altra cosa, il giovane Lew, Wolfe deve convincere la cugina ad abbandonare quel lavoro. Non ne avrebbe bisogno del resto, tra pochi mesi, raggiunta la maggiore età, erediterà i beni del padre, morto nella grande guerra.

Fu così che la mattina seguente riuscii a vedere Nero Wolfe che affrontava coraggiosamente la furia degli elementi, il più notevole dei quali, quel giorno, era uno splendente, caldo, sole di marzo.

Ma Wolfe, che non è solo il miglior investigatore di New York, ha un suo modo di procedere, molto diretti, nei confronti dei membri della famiglia Frost che, d'altra parte, si dimostra molto ostile nei suoi confronti.

C'è qualcosa di non chiaro in quella famiglia: un padre che ha lasciato tutto alla figlia (Helen) lasciando la signora Frost senza eredità; uno zio che è anche amministratore e questo stilista, dall'aria così tesa e stressata, che per Helen è come uno zio. O forse qualcosa di più. Come anche Helen, per il giovane e facilmente infiammabile Lew, è qualcosa più di una cugina.

Wolfe capisce che per arrivare all'assassino deve carpire i segreti dentro la famiglia Frost, capire la natura del legame con Boyden McNair: dietro la diffidenza nei suoi confronti ci deve essere altro, perfino su quella scatola di dolci con cui è morta Molly, non tutti i testimoni gli stanno raccontando la verità. A cominciare da Helen:

«Non capisco di cosa stiate parlando» disse finalmente con una voce sottile e fredda.
«Lo capite benissimo.» Wolfe lo inchiodò con gli occhi.
«Sto parlando della scatola di canditi avvelenati. So come la signorina Frost ne conosceva il contenuto.»

Sarà un’indagine difficile perché da una parte c’è l’ostilità della famiglia, dentro cui si nasconde l’assassino. Dall’altra ci sono le pressioni della polizia, dall’ispettore Parker col suo immancabile sigaro in bocca: quest’ultimo sa che Wolfe tende a raccontare le sue scoperte un pezzo alla volta, specie alla polizia. Ma una cosa è certa: nella sua mente, nonostante non si muova quasi mai dalle sue stanze (e con l’aiuto di un certo Hitchcock in Inghilterra), tutti i pezzi del puzzle si stanno incastrando. Servono giusto le prove per inchiodare il responsabile di quel delitto (e di altri che seguiranno). Perché ogni delitto è come una sfida per Nero Wolfe e questa lo sarà ancor di più, perché uno dei delitti avverrà proprio sotto i suoi occhi, una persona a cui aveva appena assicurato che nel suo studio non gli sarebbe successo niente.

Siamo così inetti da dover fare mezzo giro del mondo per dimostrare il movente e la tecnica di un omicidio che ha avuto luogo nel nostro studio, davanti ai nostri occhi?

Per questo serve l’aiuto di Goodwin, ma servirà anche il colpo di scena finale quando, come in un giallo che si rispetti, tutti i protagonisti saranno messi attorno ad un tavolo, su cui comparirà un oggetto all’apparenza innocuo, una scatola di pelle di colore rosso. La scatola rossa, che contiene la soluzione al mistero.

«Il guaio con voi, Wolfe,» dichiarò «è che non riuscite a dimenticarvi neppure per un attimo di come siate terribilmente in gamba.»

Molto godibile come romanzo, per la nota di humor che rende godibile la scrittura, per l’anima del protagonista, un investigatore che delega le analisi sulla scena del crimine al suo collaboratore Archie Goodwin, ma che nonostante questo sembra in grado di cogliere tutti i dettagli.

Quando si concentra in modo così profondo tanto da sembrare immerso in un suo mondo.
Celebre la sua passione per le orchidee, tanto da non voler essere disturbato ogni mattina dalle 9 alle 11. E amante anche della buona cucina, quella dello chef di casa Fritz Brenner, che ne giustifica l’imponente stazza: un amore che, nei momenti di crisi, diventa quasi la sua ossessione.

Poche cose lo irritano: dove uscire di casa appunto e l’isteria delle testimoni, che siano donne o uomini e, la cosa peggiore di tutte, essere trattato come un investigatore qualsiasi, uno a cui si chiede di indagare su un mistero per poi liquidarlo con quattro soldi.

Chiusi il blocco degli appunti, lo gettai sulla scrivania, appoggiai la testa sulla mano, abbassai le palpebre e cercai di rilassarmi. Come ho già detto, in quel caso ci capitava un cliente dopo l’altro.

La scheda del libro sul sito dell’editore Mondadori
I link per ordinare il libro su Ibs e Amazon


11 marzo 2024

Presadiretta – Sanità SPA

Ospedali dove manca il personale, si lavora su turni massacranti, il personale viene aggredito. In 120 mila se ne sono andati via all’estero, nei concorsi non si presenta nessuno e così avanza la sanità privata. Come i pronto soccorso a pagamento in Lombardia o in Calabria, dove gli ospedali sono al collasso.

Eppure ci sono ancora medici che fanno il loro dovere: dobbiamo difendere la sanità pubblica con tutte le forze.

I medici che vanno all’estero
Silvio Magliano era stato intervistato da Presadiretta nel 2020, ai tempi del covid. Già allora denunciava le carenze di organico, a Sesto San Giovanni: nel suo ospedale gli anestesisti erano pochi, lavoravano senza riposo.

Se questo è il prezzo da pagare non so se ne vale la pena” – così diveva. Dopo tre anni ora lo troviamo in Francia: o rimanevo nel tunnel o cercavo di cambiare qualcosa, alla fine ha deciso di andarsene via dall’Italia.

Lavora a Chamount, in una struttura sovrapponibile come bambini nati a San Giovanni: qui però riesce ad avere i turni in anticipo, può organizzarsi una vita normale, in Italia non poteva. Lo stipendio è aumentato di almeno un migliaio di euro al mese, lavorando di meno.
Ma non se ne è andato via per i soldi, esiste anche una vita personale – racconta a Francesca Nava.

In Francia esiste la figura degli infermieri anestesisti, cosa che in Italia manca: consentono agli anestesisti di lavorare su più sale e hanno uno stipendio che si aggira sui 3000 euro.

Sono diversi gli italiani che lavorano qui in Francia: se ne sono andati per la fatica di lavorare male e tanto, con anche uno stipendio migliore.

In Francia cercano di essere attrattivi – racconta l’ortopedico Avallone – quando se ne è andato dall’Italia nessuno ha chiesto perché te ne vai.
Dopo il covid in Francia hanno investito nella sanità pubblica, hanno investito nell’aumento salariale, non si sciopera come in Italia.

Ma anche gli amministratori locali, come a Chaumont, investono sulla sanità privata per rendere attrattivi i loro paesi.
Conclude Silvio Magliano: “
Se la gente se ne va, forse c’è da dire che si deve fare una valutazione, che non è solo strettamente economica, io non faccio il politico, io faccio il medico, il mio lavoro lo faccio bene, ma non posso fare quello degli altri. Gli altri, che sono quelli che noi votiamo, che noi paghiamo, sono loro che devono fare queste valutazioni. Tu ti rendi conto che tu dai la professionalità e di fronte trovi davanti un quota di dirigenti che non sanno niente di quello che tu fai. Economicamente sono pagato meglio [in Francia], ho più tempo libero, i pazienti mi ringraziano, non mi aspettano fuori che ti fanno delle violenze come succede tutti i giorni. I dirigenti mi rispondono alle mail, rispondono alle chiamate: anche in Italia c’è bisogno dei medici, perché li fate scappare?”.
In Italia così muore il sistema sanitario: perché si mettono i medici nelle condizioni di doversene andare, se vogliono vivere, se vogliono vedere i figli. Se si vogliono fare i figli.

Le aggressione dei medici in corsia

Anna Procida è una infermiera del pronto soccorso di Castellammare che un giorno è tornata a casa dopo essere stata aggredita da un signore che era stato invitato ad uscire.

Presadiretta è stata dentro il pronto soccorso dell’ospedale di Castellammare: corridoi pieni di gente in attesa, lettighe a terra, scene comuni in gran parte dei nostri pronto soccorso. L’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia è l’unico della ASL ad avere un dipartimento di emergenza e urgenza di primo livello con 60 mila accessi l’anno.
Quando il servizio è stato preparato, a fine gennaio, erano in corso i lavori di ristrutturazione all’ingresso dell’emergenza: dentro sarà presente un ufficio della polizia per una vigilanza armata 24 ore su 24 per proteggere medici, infermieri e operatori sanitari dalle aggressioni.
Sono decine i presidi aperti in questi ultimi mesi dal ministro Piantedosi, sono passati da 126 a 189: in corsia si sta come in trincea e i medici sono nel mezza di questa guerra, dove la disperazione, l’ansia, la difficoltà ad accedere ai servizi, porta a gesti di violenza.

Pietro di Cicco è un medico di questa struttura, a Presadiretta spiega che sta diventando molto pesante lavorare in emergenza, dentro un pronto soccorso: dovrebbero essere in 24 i medici, mentre sono in tutto in sette. Eppure l’ASL di Di Cicco fa tanti concorsi, ma alla fine solo un medico ha scelto di venire a lavorare qui.
Stessa storia all’ASL di Verbania-Cusio-Ossola: concorsi dove non si presenta nemmeno un candidato, così in questo spicchio di Piemonte la maggior parte dei medici è esternalizzata. Sono medici che a volte lavorano in un posto, a volte in altri.

Per anni negli ospedali c’è stato il blocco del turnover, ora che servirebbero nessuno vuole entrare nel pubblico, conviene entrare nella libera professione: sono medici che lavorano dove c’è l’offerta migliore, sono organizzati in cooperative.

Sono i gettonisti: per fare il gettonista nel pronto soccorso non serve nemmeno la specializzazione, tanto è la fame di posti.
Meglio lavorare come libero professionista, scegliendo dove stare, scegliendo i turni, che entrare nel pubblico e non poter respirare.
Ci sono momenti dell’anno dove i pacchetti dei gettonisti vanno all’asta, al miglior offerente: un free lance della sanità quanto arriva a guadagnare? Anche 1400 – 1300 euro al giorno.

Prendiamo più soldi rispetto ai medici assunti in ospedale, è vero – commenta Bruno Salerno, medico ginecologo, ex dipendente pubblico ora libero professionista – ma attenzione non è il gettonista che guadagna di più, è il medico ospedaliero che guadagna poco. Il medico gettonista, tolte le tasse, guadagna il giusto, quello che guadagna un collega in Germania, in Francia, in Olanda”.

La Gazmed è la più grande società di gettonisti, con un fatturato da 8 ml di euro: procura la maggior parte degli anestesisti in regione, il fondatore Bruno Pagano non vuole essere chiamato becchino della sanità pubblica “Noi siamo in questo momento la stampella per una sanità che zoppica già da anni”.

Il fenomeno dei gettonisti è anche uno spreco di risorse pubbliche: l’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione, ha calcolato che in 4 anni dal 2019 al 2023 i medici e infermieri gettonisti sono costati allo Stato 1,7 miliardi di euro. Una montagna di soldi, con cui si sarebbero potuti assumere 34 mila medici ospedalieri. La spesa più alta in Lombardia con 1400 liberi professionisti in corsia.

A spendere di più è proprio la regione Lombardia: come le aziende di Bergamo est o Mantova, che spendono molto in gettonisti.

L’assessore al Welfare in Lombardia Bertolaso ha dichiarato guerra ai gettonisti e ai liberi professionisti che si mettono all’asta: dovrebbero andare dietro tutte le altre regioni per evitare che le cooperative si spostino altrove.
Ma poi come facciamo coi direttori generali che non trovano medici? Secondo Bertolaso è compito dei DG che devono convincere i medici a lavorare in un ospedale, “come se fosse casa tua”, non basta fare bandi.
Ma Bertolaso sta facendo anche altro: anziché assumere e diminuire la pressione sui medici, ha proposto di far lavorare i medici in più strutture per coprire i buchi, con un aumento della paga, facendoli diventare gettonisti a loro volta.

La metà dei gettonisti professionisti che lavorano in Lombardia secondo le regole di Bertolaso non hanno la specializzazione.
Il TAR ha ora bocciato la proposta di Bertolaso, calmierare il mercato dei medici a gettone che sono un salasso sui nostri costi.

L’avanzata del privato
A Brescia ci sono strutture di primo soccorso private, Brescia Med: qui entrano solo codici bianchi e verdi, i pazienti gravi è meglio se vanno al pronto soccorso, non sono aperti h24… La visita di urgenza costa 135 euro, non ci sono servizi in convenzione. Insomma non è un vero e proprio pronto soccorso, ma è un ambulatorio dove lavorano pochi medici e due infermieri, che non affrontano le vere emergenze ma piccoli problemi quotidiani.
Certo, non ci sono code, la gente che arriva si sente trattata bene, viene visitata in tempi certi.
Non si vedono in questa struttura le scene del pronto soccorso nel pubblico: barelle in corsia, gente che aspetta per giorni in attesa di un ricovero perché mancano i posti.
Ci sono persone anziane che hanno subito un trauma, dovrebbero fare una radiografia, una TAC, ma sono costrette a rimanere per giorni in pronto soccorso.
In assenza di strutture sul territorio, non il medico di medicina generale, vanno tutti negli ospedali, oppure si rivolgono alla sanità privata.
Creando un corto circuito perverso, perché poi il medico privato richiede prestazioni che poi finiscono a carico del pubblico.

Francesca Nava racconta di quanto sia difficile prenotare una vista al CUP in regione Lombardia, dove si ritiene che il servizio sanitario sia una eccellenza.

Al CUP la giornalista ha cercato di prenotare una colonscopia in provincia di Bergamo: in agenda non c’era niente, la prima disponibilità è nel 2025, settembre.

Dopo essersi rivolta al CUP regionale, con in mano le impegnative che chiedevano un esame a 60 giorni, la giornalista si è rivolta ad alcune strutture private convenzionate col sistema nazionale in provincia di Varese. In una struttura non accettavano tutti gli esami, eseguivano gli esami richiesti solo da privato – è stata la risposta data dall’impiegata all’accettazione.

Da privato la colon costa 400 euro a cui si sommano 150 euro per eventuali biopsie, la colposcopia costa 1000 euro, l’ecografia 200 euro per la visita: il risultato è che nel privato i 3 esami diagnostici e la visita specialistica costano 1750 euro.

La giornalista si è rivolta ad un’altra clinica convenzionata col servizio regionale, con le stesse impegnative: la risposta non è stata diversa, nessuno degli esami richiesti viene eseguito in convezione, si fa tutto a pagamento.
Non garantire visite ed esami diagnostici con il servizio sanitario nazionale nei tempi previsti dal medico di base è un atto illegittimo.
Sulle ricette le classi di priorità sono indicate con delle lettere, U = urgente, P= programmabile. Il rispetto dei tempi di attesa è un diritto, lo sanno bene i volontari degli sportelli nati spontaneamente in Lombardia grazie all’intuizione di un pensionato di Codogno, città simbolo della pandemia.

Si chiama Fondazione Sportelli SOS Liste di attesa e il fondatore è il signor Andrea Viani: “i cittadini di fronte alla necessità non vanno più neanche al CUP vanno direttamente dai privati. La prospettiva potrebbe essere la distruzione del sistema pubblico”.

Nel 2020 Andrea Viani ha dato via allo sportello SOS Liste d’attesa: obiettivo è spiegare ai cittadini come ottenere le visite nei tempi richiesti.
I volontari ricevono le richieste dei cittadini e li aiutano ad ottenere le prenotazioni: quando ci si sente rispondere che non ci sono le agende aperte, si scrive una PEC al direttore generale, si fa un ricorso e, magicamente, si ottiene l’appuntamento. La legge lo consente, ma nessuno lo sa: se un ospedale non riesce a garantire una visita nei tempi previsti dal medico di base, deve attivarsi a trovare un posto o a rimborsare il ticket.
Questo dice la legge ed è un nostro diritto: la parità tra privato e pubblico non esiste, è una falsa equiparazione, perché pubblico e privato non condividono le rispettive agende.

In Lombardia si arriverà al CUP unico solo nel 2026 e si continuano ad avere le agende chiuse per spostare i cittadini nel privato.
Questo è la causa delle lunghe liste di attesa: Bertolaso a Presadiretta ha raccontato che è sua intenzione sbattere fuori i privati che non intendono lavorare alle sue condizioni, ma non esiste nessun controllo.

Così tocca a dei cittadini privati aiutare altri cittadini a far valere i loro diritti. Non è lo stato, non sono le istituzioni.

Dentro il centro traumatologico di Cesena

Nel servizio sanitario pubblico ci sono delle eccellenze: Presadiretta è entrata nel trauma center di Cesena, il Maurizio Bufalini. Qui lavorano medici che lavorano in equipe con le migliori strumentazioni diagnostiche. Salvano vite umane questi medici, non lasciano i pazienti in osservazione per ore.
La struttura sorge sulle colline sopra Cesena, è una macchina da guerra che offre servizi per tutta la Romagna.

Un lavoro che comincia la mattina alle sette, analizzando i dati dei pazienti ricoverati, pianificando interventi che possono durare anche una giornata intera. Operazioni che una volta si facevano solo all’estero, con costi fino a 150mila dollari e che invece oggi si fanno qui, in Italia, nel pubblico.

Presadiretta ha mostrato una operazione su un tumore al colon, fatta con robot che consentono di operare con precisione: lo racconta
Fausto Catena, chirurgo, a Iacona “la chirurgia altamente tecnologica richiede un forte investimento in termini di risorse, anche risorse umane e pensare che in Italia una persona di qualsiasi ceto, di qualsiasi disponibilità economica, possa avvalersi di tutto questo è una conquista pazzesca, di civiltà. Ti do il massimo che esista, gratis [con la tassazione pubblica]. Lo stesso intervento potrebbe costare negli Stati Uniti 300mila dollari..

Un letto in traumatologia costa 3500 euro giorno: le operazioni fatte al Bufalini non possono essere portate nel privato (perché al privato non sarebbero convenienti, non ci sarebbe profitto), i pazienti sono seguiti da diversi medici, da infermieri che li seguono tutto il giorno. Lavorano per uno stipendio dignitoso – così raccontano a Presadiretta – portandosi a casa tante soddisfazioni.
Questo è quello che rischiamo di perdere se non riprenderemo a finanziare la sanità pubblica. La nostra salute, la cura dei pazienti, la cura di una popolazione che diventa sempre più anziana.

Ma perderemo anche conoscenze e competenze in questi settori, come la chirurgia di emergenza, come quelle del dottor Fausto Catena.

Dovremmo essere orgogliosi di avere medici come il dottor Catena.

La mia preoccupazione e che a furia di togliere pezzettini dal sistema sanitario viene giù tutto – racconta il dottor Vanni Agnoletti: i medici e gli infermieri sono molto richiesti dal privato, che paga anche cifre più alte.
Ma quello che faccio qua ha un valore così enorme da essere impagabile – continua il medico del Bufalini.
Rischiamo di portare trasformare il servizio sanitario in un servizio basato sul reddito: lo spiega il dottor Corradori che a Iacona racconta che è vero che la sanità pubblica costa, ma anche la non sanità ha un costo, se le persone non ci curano anche questo avrà un costo per la società.
Investire nel sistema sanitario, universalistico e gratuito, è un contributo per la nostra democrazia: se non sei in salute non sei libero. Devi essere curato per essere libero.

Nella sanità mancano i soldi: negli ultimi 15 il sistema ha subito un definanziamento per 48 miliardi di euro, il Gimbe ha stabilito che la spesa per PIL è destinata a calare.

Non prendiamo in giro i cittadini: o si investe nel pubblico oppure si deve ammettere davanti al paese che ci si deve rivolgere al pubblico – è l’opinione di Nino Cartabellotta.
Ma poi, il privato funziona veramente meglio del pubblico?

I medici in Calabria devono combattere anche contro la criminalità organizzata e nel frattempo la sanità privata avanza velocemente.

Chi si ammala in questa regione deve subire un calvario, la storia del signor Naccari lo spiega bene, un problema al naso che non si riusciva a risolvere perché nessuno riusciva a guardare il referto dal CD.

Aveva un tumore nel naso, come emerso da una semplice analisi con una sonda: per scoprirlo è dovuto andare a Milano. Doveva morire altrimenti.
In Calabria si spende di meno in sanità e ci si sposta di più per curarsi: il rapporto Svimez parla di un paese a due cure, le regioni del sud hanno versato 14 miliardi alle regioni del nord per le cure dei loro cittadini, 2,7 miliardi sono della Calabria.

In Calabria lavora il primario Vincenzo Amodeo nell’ospedale di Polistena e a Locri: sta portando avanti una battaglia per rilanciare la sanità regionale, con nuove sale ospedaliere, con nuove macchine.
Siamo in guerra – racconta a Francesca Nava - servono medici e infermieri
: alla trasmissione spiega come ci siano forti tendenze da parte della politica che spinge verso il privato. In soccorso alla sanità calabrese sono arrivati 300 medici da Cuba, ma a Polistena si lavora ancora con carenza di organico.

Il cittadino ogni giorno deve combattere una guerra per ottenere i servizi che gli spettano: l’ospedale di Locri dovrebbe essere ristrutturato dal 1998, sono stati spesi 14ml. Per fare cosa?

Anche a Locri, prenotare gli stessi esami come fatto in Lombardia, porta agli stessi risultati, non è possibile prenotare un esame nel pubblico.
Lucia di Furia è direttrice dell’ASL a cui appartiene la struttura di Locri: “Io non sono amica di nessuno da queste parti. Non conoscevo niente della Calabria, ma la parola Locride la conoscevo pure io che vivevo nelle Marche. Appena sono arrivata qui c'è stata una retata, hanno portato via dei medici, già che erano pochi li hanno pure portati via”.

La situazione che ha trovato in questa struttura è pietosa: “Ho avuto paura, devo essere onesta, ho avuto un episodio legato al mio ruolo, per altro poco tempo dopo che ero arrivata. Subite le pressioni ho capito una cosa sola, che stavo nel posto giusto. Ho detto: se è così che mi vogliono mandar via, allora è sicuro che rimango”.

Ci sono le case della salute, ma chi ci mettiamo dentro?
Si fa di tutto per rallentare la struttura sanitaria pubblica per far crescere gli interessi dei privati che pullulano nel territorio.

I laboratori privati crescono in Calabria, come le strutture sanitarie residenziali, salite al 80%.
Anche qui c’è un abbraccio tra politica e sanità che causa anche problemi ai conti pubblici: Presadiretta ha raccontato le storie di dirigenti apicali nella sanità che hanno favorito strutture private, persone nominate dalla politica che è colpevole della carenza nel servizio sanitario.
Politici che nominano i dirigenti, che poi si controllano da soli: il senatore Crisanti ha presentato una norma in Parlamento con cui togliere ai presidenti di Regione il potere di nominare i direttori sanitari, che dovrebbero essere indipendenti dalla politica.
Non mancano i soldi, ma le idee – racconta Crisanti: il costo della sanità è 180 miliardi, quasi il 9% del PIL, come è possibile che non funzioni?

É perché il sistema sanitario è marcio.

La componente privata della spesa sanitaria è salita dal 12 al 24 %, ci sono strutture che oramai sono solo private accreditate in alcune zone d’Italia: lo stato finanzia e amministra la sanità privata al posto del pubblico.

La privatizzazione della sanità è un rischio per la democrazia: uno stato privatizzato non può avere controlli, perché costano, dunque si arriva alla deregolamentazione.

In Italia oggi il gruppo san Donato e l’assicurazione Generali hanno stretto un accordo, per creare nuovi poliambulatori privati che si trovano ovunque.

Sono le smart clinic, un modello che verrà esportato in tutta Italia: il personale sanitario lo metterà San donato, Generali gli immobili e occuperanno gli spazi lasciati liberi dal pubblico.
A questo punto si perde di vista il confine tra pubblico e privato, ci si inizia a chiedere perché votare: la privatizzazione distrugge il senso stesso dello stato.


10 marzo 2024

Anteprima Presadiretta – Sanità SPA

La situazione della sanità pubblica, specie nelle regioni del sud (ma non solo), è sotto gli occhi di tutti. La sperimentiamo ogni volta che abbiamo bisogno del medico di base (con buona pace del ministro Giorgetti, noi comuni cittadini abbiamo ancora bisogno del medico), quando dobbiamo prenotare una visita specialistica e ci viene risposto che non ci sono posti in agenda. Oppure, come capitato a me per una visita oculistica, primo posto a dicembre.

Ancora oggi, nei telegiornali, nei talk, si sente ripetere dai soldatini di fratelli d’Italia che non è vero che questo governo ha tagliato i fondi sulla sanità, questo governo ha messo tre miliardi di euro in più nella sanità… Le bugie hanno le gambe corte e per smascherarle basterebbe avere un giornalista in studio che risponda al politico di turno che, è vero che si sono dei miliardi in più, ma solo per il prossimo anno e che comunque sono insufficienti per tenere in piedi tutto il sistema sanitario, pubblico e universale, per tutti. Come garantisce la Costituzione.

I soldi sono stati messi, ma meno di quanto ne servirebbero per garantire in servizio uguale per tutti, dal nord al sud, per chi ha i soldi e chi non li ha e oggi è costretto a rinunciare a curarsi.

Così, come racconta Riccardo Iacona nell’anticipazione della puntata, mentre gli ospedali pubblici fanno fatica a lavorare e crescono le liste di attesa, la sanità privata avanza e prova a riempire i vuoti lasciati dal pubblico. Da Sanità pubblica a Sanità SPA, come dice il titolo della puntata: Presadiretta torna ad occuparsi della sanità pubblica, del pericolo di perdere questo presidio della democrazia.

La mancanza di risposta da parte del pubblico nel servizio sanitario ha portato, come effetto collaterale, anche ad un aumento delle aggressioni al personale sanitario, tanto da portare alla decisione di aumentare i presidi delle forze dell’ordine dentro degli ospedali: magari dentro queste strutture faremo fatica a trovare un medico, ma non mancheranno gli agenti.
Presadiretta è stata dentro il pronto soccorso dell’ospedale di Castellammare: corridoi pieni di gente in attesa, lettighe a terra, scene comuni in gran parte dei nostri pronto soccorso. L’ospedale San Leonardo di Castellammare di Stabia è l’unico della ASL ad avere un dipartimento di emergenza e urgenza di primo livello con 60 mila accessi l’anno. Quando il servizio è stato preparato, a fine gennaio, erano in corso i lavori di ristrutturazione all’ingresso dell’emergenza: dentro sarà presente un ufficio della polizia per una vigilanza armata 24 ore su 24
per proteggere medici, infermieri e operatori sanitari dalle aggressioni.
Sono decine i presidi aperti in questi ultimi mesi dal ministro Piantedosi, sono passati da 126 a 189: in corsia si sta come in trincea e i medici sono nel mezza di questa guerra, dove la disperazione, l’ansia, la difficoltà ad accedere ai servizi, porta a gesti di violenza.

Mancano medici, mancano infermieri, mancano posti letto. Quelli che ci sono se possono passano al privato, vanno a lavorare all’estero (o nella vicina Svizzera come qui nel comasco, dove vengono pagato bene).
Silvio Magliano è uno di questi: oggi è un anestesista rianimatore Ospedale che lavora nell’ospedale di Chaumont in Francia: a Presadiretta racconta che dove lavora riesce ad avere i turni tre mesi in anticipo e non all’ultimo del mese, riesce così ad organizzarsi una vita normale: “io in Italia non potevo farlo” continua il suo racconto “qui lo stipendio è aumentato di almeno un migliaio di euro di più al mese. Se la gente se ne va, forse c’è da dire che si deve fare una valutazione, che non è solo strettamente economica, io non faccio il politico, io faccio il medico, il mio lavoro lo faccio bene, ma non posso fare quello degli altri. Gli altri, che sono quelli che noi votiamo, che noi paghiamo, sono loro che devono fare queste valutazioni. Tu ti rendi conto che tu dai la professionalità e di fronte trovi davanti un quota di dirigenti che non sanno niente di quello che tu fai. Economicamente sono pagato meglio [in Francia], ho più tempo libero, i pazienti mi ringraziano, non mi aspettano fuori che ti fanno delle violenze come succede tutti i giorni. I dirigenti mi rispondono alle mail, rispondono alle chiamate: anche in Italia c’è bisogno dei medici, perché li fate scappare?”.

Sono tanti gli anestesisti che se ne sono andati e tanti quelli che non hanno trovato il coraggio per andarsene, perché “quella vita là, in Italia, non si può fare”.

Ma così muore il servizio sanitario, se ne vanno tutti: “mi dispiace ma non sono il capitano della nave, non l’abbandono alla fine.. Faccio il topo, però preferisco vivere”.

La sanità italiana si sta trasformando in una società per azioni? Da una buona sanità pubblica non dipende solo la nostra salute, ma anche la salute della democrazia nel nostro paese – racconta Iacona nell’intervista a Radio Radicale.

Avere a disposizione, a prescindere dal reddito, un servizio sanitario nazionale che beneficia delle nuove tecniche e degli strumenti più moderni è un passo in avanti per il nostro paese: sono le parole di Fausto Catena, chirurgo, nell’intervista a Iacona dopo aver mostrato una diagnosi sui linfonodi di un paziente con una macchina di ultima generazione.

La chirurgia altamente tecnologica richiede un forte investimento in termini di risorse, anche risorse umane e pensare che in Italia una persona di qualsiasi ceto, di qualsiasi disponibilità economica, possa avvalersi di tutto questo è una conquista pazzesca, di civiltà. Ti do il massimo che esista, gratis [con la tassazione pubblica]. Lo stesso intervento potrebbe costare negli Stati Uniti 300mila dollari..
E’ anche da queste cose che arriva la soddisfazione per il proprio lavoro.

Ma la realtà è ben diversa: nell’anteprima della puntata Francesca Nava racconta di quanto sia difficile prenotare una vista al CUP in regione Lombardia, dove si ritiene che il servizio sanitario sia una eccellenza.

Al CUP la giornalista ha cercato di prenotare una colonscopia in provincia di Bergamo: in agenda non c’era niente, la prima disponibilità è nel 2025, settembre.

Dopo essersi rivolta al CUP con in mano le impegnative che chiedevano un esame a 60 giorni, la giornalista si è rivolta ad alcune strutture private convenzionate col sistema nazionale in provincia di Varese. In una struttura non accettavano tutti gli esami, eseguivano gli esami richiesti solo da privato – è stata la risposta data dall’impiegata all’accettazione.

Da privato la colon costa 400 euro a cui si sommano 150 euro per eventuali biopsie, la colposcopia costa 1000 euro, l’ecografia 200 euro per la visita: il risultato è che nel privato i 3 esami diagnostici e la visita specialistica costano 1750 euro.

La giornalista si è rivolta ad un’altra clinica convenzionata, con le stesse impegnative: la risposta non è stata diversa, nessuno degli esami richiesti viene eseguito in convezione, si fa tutto a pagamento.
Non garantire visite ed esami diagnostici con il servizio sanitario nazionale nei tempi previsti dal medico di base è un atto illegittimo. Sulle ricette le classi di priorità sono indicate con delle lettere, U = urgente, P= programmabile. Il rispetto dei tempi di attesa è un diritto, lo sanno bene i volontari degli sportelli nati spontaneamente in Lombardia grazie all’intuizione di un pensionato di Codogno, città simbolo della pandemia.

Si chiama Fondazione Sportelli SOS Liste di attesa e il fondatore è il signor Andrea Viani: “i cittadini di fronte alla necessità non vanno più neanche al CUP vanno direttamente dai privati. La prospettiva potrebbe essere la distruzione del sistema pubblico”.

Francesca Nava ha incontrato, Adrian Naranjo cardiologo venuta dall’Havana per supportare i medici dell’ospedale di Locri dal dicembre del 2022: il suo contributo è diventato indispensabile per l’ospedale dove si reca ogni giovedì per svolgere controlli basilari, pacemaker, defibrillatore. Ma come, i medici di Locri che sono qui da tanti anni non li sanno fare questi controlli?
Il primario di cardiologia dell’ospedale di Polistena, il dottor Amodeo, spiega che non può insegnare questi controlli, altrimenti smetterebbe di fare il suo lavoro da responsabile dell’equipe, “ma che faccio il professore di scuola oppure devo venire qua a fare il primario? Bisogna fare una rivoluzione culturale” racconta a Presadiretta “e poi, dopo che avrai fatto la rivoluzione culturale vai a combattere e vincerai la guerra”


Nonostante queste premesse, il tema della sanità pubblica non è ai primi posti nell’agenda politica che oggi sarà presa dall’esito delle elezioni in Abruzzo, dal presunto dossieraggio: si tira fuori la questione del gap sanitario solo come arma di propaganda, sotto le elezioni. La politica si indigna per la violazione della privacy di cittadini (che poi sono vip, politici, persone che per il loro ruolo sotto attenzionate dai sistemi di controllo), ma non per la perdita di questo diritto, il diritto alla cura.
Eppure questo argomento diventerà sempre più importante, perché stiamo diventando un paese di anziani, bisognosi di curi, dove aumenta la distanza tra i ceti abbienti e quello che era l’ex ceto medio:
la secessione dei ricchi, la riforma per l’autonomia differenziata delle regioni, non farà che aumentare questo divario di diritti.

Sui giornali trovate delle anticipazioni dei servizi che andranno in onda domani sera: c’è l’articolo della stessa Francesca Nava uscito ieri su Il Domani

La sanità a pezzi divorata dalla privatocrazia
Dalla Calabria alla Lombardia, dal Piemonte all’Emilia-Romagna. Nella puntata di lunedì 11 marzo, la trasmissione Rai “Presadiretta” di Riccardo Iacona racconterà la deriva occulta del servizio sanitario nazionale, le difficoltà degli ospedali pubblici, lo stato di sofferenza dei pronto soccorso, la diffusione di ambulatori di urgenza a pagamento, la proliferazione di poliambulatori. 

Nell’articolo potrete leggere alcuni dei punti toccati dall’inchiesta: lo sfogo di Lucia Di Furia, DG dell’azienda sanitaria di Reggio Calabria, finita sotto inchiesta per le infiltrazioni mafiose che hanno reso più acuto il problema della carenza di medici.

Del pendolarismo sanitario dalle regioni del sud a quelle del nord, una sorta di tassa occulta pagata dalle regioni più povere – come testimonia il rapporto di Svimez: “Negli ultimi 10 anni tredici regioni del sud hanno versato 14 miliardi di euro a quelle del nord per far curare i propri cittadini, 2,7 miliardi sono della Calabria”.

Si parlerà di come il privato si sia infiltrato dentro i vuoti lasciati dal servizio pubblico, una scelta politica, come qui in Lombardia, per dare ai cittadini un finto diritto di scelta, in realtà solo un modo per arrivare ad una privatizzazione del servizio nei settori più profittevoli (per un approfondimento leggetevi Assalto alla Lombardia del giornalista Marco Sasso).

Infine la questione dei gettonisti, i medici pagati a gettone che le Asl prendono a servizio per colmare i vuoti del personale da cooperative private:

“’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione, ha calcolato che in 4 anni dal 2019 al 2023 i medici e infermieri gettonisti sono costati allo Stato 1,7 miliardi di euro. Una montagna di soldi, con cui si sarebbero potuti assumere 34 mila medici ospedalieri. La spesa più alta in Lombardia con 1400 liberi professionisti in corsia

Sul Corriere di Cesena trovate questo articolo dove si parla del centro traumatologico di Cesena Maurizio Bufalini, un polo di eccellenza (non è un caso che questo articolo sia stato pubblicato su una testata locale, il tema della sanità e dei presidi territoriali è molto più sentito):

Lunedì 11 marzo, in prima serata, su Raitre, torna la trasmissione “Presa diretta” con una puntata interamente dedicata al Servizio Sanitario Nazionale , messo a dura prova dal sottofinanziamento degli ultimi dieci anni e dall’aumento del bisogno di cura . Tra i tanti ospedali attraversati ci sarà un reportage realizzato all’ospedale “Maurizio Bufalini” di Cesena, un viaggio realizzato da Riccardo Iacona che ha seguito per diversi giorni l’attività del Trauma Center Romagna, centro di riferimento per i traumi maggiori dell’intero territorio romagnolo. [..]

E’ stata una esperienza umana incredibile ... – racconta Riccardo Iacona – aver incontrato personale medico, infermieristico e sanitario di altissimo livello. Ho capito veramente quanto è prezioso il servizio sanitario nazionale quando funziona . Non è solo prendersi cura di chi ha bisogno di una risposta di salute, dentro gli ospedali pubblici succede molto di più, si stringe un patto con la comunità che costruisce uguaglianza e democrazia. Riuscire a offrire a chiunque , senza guardare al portafoglio, le cure al più alto livello è una conquista di civiltà enorme e quasi unica nel panorama mondiale della sanità. Ecco perché va difesa con le unghie e con i denti . 

La scheda della puntata:

Ambulatori a pagamento per decongestionare il pronto soccorso degli ospedali, medici pagati con un gettone presenza per sopperire alla carenza di organico delle strutture pubbliche, analisi nei laboratori privati per saltare liste d’attesa di mesi e mesi: la sanità italiana si sta trasformando in una società per azioni? 
“Presadiretta” – in onda lunedì 11 marzo alle 21.20 su Rai 3 con la puntata dal titolo “Sanità S.p.a.” - è andata negli ospedali di Lombardia e Calabria per capire se la trasformazione in atto del sistema sanitario nazionale verso la privatizzazione sia la strada giusta per assicurare il diritto alla salute dei cittadini. 
Nonostante il governo Meloni abbia investito 2,4 miliardi di euro per aumentare gli stipendi, non si ferma la grande fuga del personale sanitario. Tra il 2020 e il 2022 180 mila tra medici e infermieri hanno scelto di lasciare la sanità pubblica, migliaia di loro sono fuggiti in Paesi come la Francia dove guadagnano molto di più e non sono costretti a turni massacranti. A sostituirli negli ospedali sono arrivati i medici e gli infermieri a chiamata, comunemente detti gettonisti, perché lavorano, appunto, a gettone. Sono organizzati in cooperative e si spostano a seconda del bisogno, dell’offerta e delle condizioni. L’Anac, l’autorità nazionale anticorruzione, ha calcolato che in 4 anni dal 2019 al 2023 i medici e infermieri gettonisti sono costati allo Stato 1,7 miliardi di euro. La spesa più alta in Lombardia con 1400 liberi professionisti in corsia. Ma c’è chi continua a lavorare nel pubblico, che ha fatto di ospedali come il Maurizio Bufalini di Cesena un polo d’eccellenza, punto di riferimento per tutti. 
“Sanità S.p.a.” è un racconto di Riccardo Iacona, con Francesca Nava, Antonella Bottini, Lisa Iotti, Marianna De Marzi, Fabio Colazzo, Massimiliano Torchia.

Le anticipazioni dei servizi che andranno in onda questa sera le trovate sulla pagina FB o sull'account Twitter della trasmissione.